Essere il portiere della squadra di calcetto della mia classe in quinta superiore al tecnico Jean-Monnet di Mariano Comense mi donò il grande privilegio di poter ammirare quale spettacolo fosse veder giocare i miei compagni d'avventura.
Era veramente uno spasso vederli giocare dal mio privilegiato punto di vista.
Mi divertivano un sacco i miei compagni di ventura perché giocavano davvero un ottimo calcio.
In particolare Davide, Damocle e Luigi avevano una marcia in più degli altri e vederli in azione era veramente divertente.
Noi eravamo quelli della 5 A Amministrativo.
Quell'anno scolastico lì, 1989/1990, fu l'ultimo della nostra carriera da alunni e fu anche l'ultima volta che provammo a vincere il torneo di calcetto riservato alle classi del triennio.
Ciò che mi rammarica, ora che stendo queste righe, è l'aver perso e mai più ritrovato il mio "quaderno di bordo" dove avevo allineate tutte le partite giocate negli anni 1988/1989/1990.
Per quanto l'abbia cercato non l'ho trovato.
Così mi mancano alcune date precise e soprattutto i risultati completi delle gare che disputammo.
Per certo nell'anno scolastico 1988/1989 uscimmo ai quarti di finale che giocammo contro un'altra quarta e che perdemmo per 3-1.
Ci prendemmo la rivincita, e con gli interessi, nell'anno scolastico 1989/1990.
Arrivammo di gran carriera fino alla finale giocando un ottimo calcio.
Io giocai tutte le partite con i mie compagni ed in una occasione fui chiamato a difendere la porta della squadra dei Professori.
Loro erano gli unici a non avere un
portiere fisso. Chiamavano di volta in volta chi giocava in porta con le altre classi.
Così in una occasione mi cercarono. Ovviamente la cosa mi fece molto piacere.
Mi risultò alquanto strano trovarmi nello stesso spogliatoio con il mio Prof. di matematica Pisaniello: averlo così come compagno di squadra quando di solito lo osservavo, ai tempi con timore, dal mio banco di scuola. Ricordo poi il Prof. Bambace e il nostro Prof. di Italiano che si chiamava Dasara. Non ricordo con esattezza quale altro Prof. giocasse come quarto di movimento ma non credo di sbagliare se indico il nome del Prof. De Gennaro.
Per certo arbitrava sempre il mitico Prof. Angelo Bamonte che di quel torneo di calcetto era la mente, l'anima e appunto l'arbitro.
Per certo arbitrava sempre il mitico Prof. Angelo Bamonte che di quel torneo di calcetto era la mente, l'anima e appunto l'arbitro.
Quella partita che giocai con i Prof si chiuse con un pareggio
per uno a uno. Ricordo che passammo in vantaggio e che, poco prima della fine, gli avversari pareggiarono con un tiro da zero metri che non mi lasciò scampo. Lì non riuscì a compiere miracoli, ma quel pareggio bastò loro per
passare il turno e qualificarsi per i quarti di finale. Pisaniello, Bambace e Dasara li avrei incrociati ancora, ma questa volta da avversari, in semifinale.
Con i miei compagni passeggiammo sopra i nostri avversari in fase di
qualificazione.
Passammo poi agevolmente anche il nostro quarto di finale.
Ora fra noi e
la finale c’era solo la squadra dei Prof.
Non che ci facessero paura. Ma io,
avendoci giocato insieme, avevo il netto timore che loro godessero comunque di
un arbitraggio, da parte del mitico Bamonte, un po’ troppo “favorevole”.
Noi che ci schieravamo solitamente con la seguente formazione:
2) Bellotti Davide detto Dadà
3) Terraneo Alberto detto Ocio
4) Sironi Damocle detto Tipo
5) Cappellini Luigi detto Gelli
In panchina pronti all'intervento vi erano:
- Citterio Carlo detto Cita o Carletto
- Amato Tiziano detto Tito
- Terraneo Fausto detto Zio Faustino
- Terraneo Marco detto Cello
Come già ho detto all'inizio tra tutti noi della 5 A solo Davide e Damocle giocavano regolarmente a calcio allenandosi e partecipando a campionati giovanili, mentre Luigi aveva giocato ai tempi delle elementari. Nel calcetto, dove lo spazio di manovra è stretto, la tecnica e la capacità di controllare la palla sono di basilare importanza. Stoppare la palla e tenerla nei piedi senza farla scappare a qualche metro di distanza e saperla smistare con precisione chirurgica diventano, nello spazio stretto, armi vincenti. Quei tre facevano la differenza proprio perché avevano un rapporto speciale con la palla e i loro piedi era dorati. Noi altri compagni di ventura (detto molto realisticamente e senza voler offendere l'amor proprio di alcuno) eravamo poco più che "Onesti Pedatori", come tanti.
La gara con i Prof la vincemmo, a memoria, senza molta fatica. Non ricordo con certezza il punteggio se non il particolare che noi non subimmo alcuna rete.
Quello che mi ricordo abbastanza bene è il particolare di uno scontro di gioco che ebbi con il Prof. di Italiano. Lui suonava la chitarra e, come si usa tra i chitarristi , teneva le unghie lunghe per poter meglio pizzicare le corde della chitarra. Questo particolare mi restò in mente perché in quello scontro di gioco lui mi prese per un braccio e due minuti dopo sentendo un leggero prurito mi guardai il braccio e e vidi due graffi lunghi qualche centimetro. Sicuramente lo mandai a quel paese.
Ad ogni modo ce l'avevamo fatta.
Eravamo in finale.
Gli avversari erano i più temibili del lotto, come è giusto che sia, quando alla fine del cammino restano solo i migliori: erano quelli della 5 / E Linguistico.
Quei ragazzi giocavano così: in porta un pezzo di marcantonio di nome Citterio Fabrizio, cugino del nostro Carletto, portiere tanto forte che giocò nella prima squadra a Mariano quindi davanti a lui Davide Fumagalli, pure lui ex Mariano (giocò anche a Cabiate), poi c'era il mio concittadino cabiatese Raffaele Agostoni (per tutti, da sempre, solo e semplicemente Raffa). Gli altri due elementi del quintetto base parevano, senza voler mancar loro di rispetto, del tutto superflui.
I tre, quei tre citati all'inizio, bastavano e avanzavano pure. Comunque per la cronaca gli altri due erano tali Fortunato detto Fofò e tale Manti.
Il mio concittadino Raffa Agostoni era un signor atleta. Fisicamente faceva paura. Tifoso interista da sempre aveva, all'epoca, nel tedesco Karl-Heinz Rumenigge il suo idolo incontrastato. E il suo stile di gioco ricalcava essenzialmente quello del calciatore tedesco.
Raffa lo conoscevo proprio bene perché nel nostro "Stadio Dei Sogni", cioè il campo di pattinaggio adibito a calcetto, all'oratorio qui a Cabiate giocammo contro o insieme millanta e più partite molto prima di quel giorno di maggio 1990 in cui si disputò la finalissima. Lui era un calciatore di quelli che appena vedeva uno spiraglio di porta, anche a distanze proibitive, non ci pensava due volte e calciava a rete con tutta la forza di cui era capace . Non era un venezia, nel senso letterale del termine, non era un innamorato della palla ma quando l'aveva tra i piedi nove volte su dieci calciava in porta. Lo sapevo, lo conoscevo bene.
Il giorno esatto della finale, purtroppo, non lo ricordo. Sicuro era nella seconda metà di maggio.
Quel giorno lì ci presentammo all'appuntamento privi del nostro "battitore libero": infatti il mitico Alberto (mi sembra di ricordare per un problema ad un occhio) non fu della partita.
Io perdevo il "mio Franco Baresi". Perdevo cioè quel giocatore che, davanti a me, faceva scudo con la sua elevata statura sulle palle alte.
La riunione di spogliatoio decretò che a sostituire Alberto sarebbe toccato allo "Zio" Fausto.
Quindi la nostra linea difensiva in quella partita finale cambiò.
Sapevamo che l'impresa sarebbe stata dura e quel contrattempo non facilitò certamente le cose.
A vedere la gara finale c'erano poche persone: qualche ragazzo delle altre classi e da Cabiate venne a vedermi il mio fraterno amico Bond, un fratello nel vero senso della parola: con lui avevo già condiviso in passato e avrei poi condiviso in futuro parecchie cose della mia gioventù, come la passione per la stessa ragazza, un piccolo ribaltamento in macchina ai tempi del nostro ventesimo anniversario e altre vicende nel cammino della vita. Quel pomeriggio di maggio era lì anziché al lavoro perché di lì a due giorni sarebbe partito per il servizio militare. Più in là nel corso della partita arrivò a vederci giocare anche la nostra compagna Margherita che si era fermata a scuola per le prove per la festa di fine anno dove lei suonava la chitarra.
Pronti via si partì e dopo nemmeno il giro di un minuto il nostro nuovo assetto difensivo andò a farsi benedire. Il buon Manti (che era stato battezzato come uno dei meno pericolosi del lotto avversario) alla prima palla che gli arrivò senza nemmeno fermarsi a pensare mi recapitò un missile terra-aria che se chiudo gli occhi ancora ricordo come fosse ora, si infilò alla mia destra a fil di palo, senza lasciarmi scampo.
Posso per certo immaginare la sfilza di improperi che mi uscirono di bocca.
Stare a guardia della "porteria" e prendere gol dopo meno di un minuto è qualcosa di straziante.
Tuttavia riuscimmo a riprenderci da quello "schiaffo" iniziale e ci portammo in avanti con buona determinazione verso la porta dei nostri avversari.
Quando mancavano una manciata di minuti alla fine del primo tempo ci fu un'azione confusa davanti alla porta di Citterio. Tanto confusa che io dalla mia porta non vidi pressoché nulla ma quello che più contò fu che il nostro "Zio" Faustino non si sa ancora bene come riuscì a spingere dentro la palla dell'1-1. Se Dio in quel momento esisteva per me non poteva che avere la faccia dello "Zio".
Come finì dentro quella palla è ancora oggi un mistero: qualche leggenda vuole che la buttò dentro con la coscia, qualche altra racconta che fu con la pancia e l'ultima volle che la butto dentro buttandosi dentro lui stesso nella porta. Boh !
Quello che è un dato di fatto è che lì pareggiammo le sorti dell'incontro e lì finì il primo tempo.
Fondamentalmente eravamo ancora in partita. Ce la potevamo ancora giocare.
Partì il secondo tempo.
Passarono forse cinque minuti, forse meno, il mio concittadino Raffa prese la palla e superò di un metro, forse due, la metà campo. Premetto che sulla mia patente di guida era riportata la dicitura "Guida con lenti". Soffrivo già di lieve miopia e leggere astigmatismo. A vedere lontano facevo un po' fatica. Poi per il resto avevo la giusta agilità e la giusta dose di coraggio e pazzia per stare a fare il portiere.
Il problema, nel caso, fu proprio in quel mentre che il buon Raffa mirò alla mia porta.
Da così lontano io avrei anche potuto ben immaginare che lui avrebbe tirato. E infatti lui lasciò partire il suo missile. Non lo vidi neanche partire, mi buttai con colpevole ritardo e vidi la palla che era già alle mie spalle. Tirai qualche bestemmia di fuoco. Eravamo sotto di nuovo.
Da lì non saremmo più tornati indietro. Anzi, poco dopo loro segnarono il 3-1 e poi il 4-1. Uno dei due gol, non ricordo se il terzo o il quarto me lo segnò ancora Raffa.
Ufficialmente avevamo perso.
Per quanto siano passati anni, tanti, la revisione storica mi impose da subito di riconoscere che una gran parte della colpa era la mia. Quel gol del 2-1 che presi colpevolmente da distanza siderale ci spezzò le gambe. Loro erano sicuramente atleticamente più possenti, più forti. Penso sempre al mio buon Raffa e considero ora come allora che avrebbe potuto essere la custodia del nostro Damocle.
Ciò non toglie che il nostro gioco fosse il più bello da vedere. Il più arioso. Il più fantasioso.
I nostri "piccolini" Damocle e Luigi erano come dei folletti del calcio, belli da vedere, veloci, decisivi. Come danzatori leggiadri i nostri si infilavano nelle difese avversarie e facevano sfaceli.
Tuttavia, quel giorno lì, si inceppò tutto il nostro sistema e certo anche la caratura degli avversari contribuì alla nostra debacle.
Mi faccio male e penso ora, come pensai allora, che a portieri invertiti forse la storia sarebbe stata diversa.
Ad ogni modo ricordo che alla fine della partita mi tolsi la maglia me la legai al collo come fosse un cappio e presi a testa bassa la via dello spogliatoio.
Non accennai a nessun saluto.
Non ringraziai neppure la nostra Margherita, unica sostenitrice, che era arrivata a vederci tra il primo e il secondo tempo. Ancora peggio mi comportai il giorno dopo quando commisi un terribile errore del quale ancora adesso, venticinque anni dopo, mi rammarico.
Appena entrai in classe al primo incrocio con lei le dissi che, essendo arrivata che stavamo pari ed essendo finita poi in goleada a favore dei nostri avversari, ci aveva praticamente portato un po' sfiga.
Considerato la straordinaria persona che era, lei non si sarebbe mai meritata di sentirsi dire una cosa del genere. Avevamo sin lì avuto sempre un ottimo rapporto. Ricordo un giorno a Vienna, durante la gita di quinta nel marzo 1990, che qualcuno la bagnò con un gavettone e io le passai il mio maglione per coprirsi. Non essendo un gran fusto la sera del giorno dopo avevo 39 di febbre e restai in albergo moribondo con lei che mi fece da crocerossina.
Ora non mi riconosco in quell'essere lì che faceva di una sconfitta sportiva un motivo per offendere gratuitamente. E questa cosa qua me la porto dietro come una sorta di fallimento "umano". Perché poi di questo si parla, dato che la partita fu una sconfitta ma quella cosa qua fu un fallimento.
A proposito di ciò mi rammento una frase dello scrittore americano William S, Burroughs:
La gara con i Prof la vincemmo, a memoria, senza molta fatica. Non ricordo con certezza il punteggio se non il particolare che noi non subimmo alcuna rete.
Quello che mi ricordo abbastanza bene è il particolare di uno scontro di gioco che ebbi con il Prof. di Italiano. Lui suonava la chitarra e, come si usa tra i chitarristi , teneva le unghie lunghe per poter meglio pizzicare le corde della chitarra. Questo particolare mi restò in mente perché in quello scontro di gioco lui mi prese per un braccio e due minuti dopo sentendo un leggero prurito mi guardai il braccio e e vidi due graffi lunghi qualche centimetro. Sicuramente lo mandai a quel paese.
Ad ogni modo ce l'avevamo fatta.
Eravamo in finale.
Gli avversari erano i più temibili del lotto, come è giusto che sia, quando alla fine del cammino restano solo i migliori: erano quelli della 5 / E Linguistico.
Quei ragazzi giocavano così: in porta un pezzo di marcantonio di nome Citterio Fabrizio, cugino del nostro Carletto, portiere tanto forte che giocò nella prima squadra a Mariano quindi davanti a lui Davide Fumagalli, pure lui ex Mariano (giocò anche a Cabiate), poi c'era il mio concittadino cabiatese Raffaele Agostoni (per tutti, da sempre, solo e semplicemente Raffa). Gli altri due elementi del quintetto base parevano, senza voler mancar loro di rispetto, del tutto superflui.
I tre, quei tre citati all'inizio, bastavano e avanzavano pure. Comunque per la cronaca gli altri due erano tali Fortunato detto Fofò e tale Manti.
Il mio concittadino Raffa Agostoni era un signor atleta. Fisicamente faceva paura. Tifoso interista da sempre aveva, all'epoca, nel tedesco Karl-Heinz Rumenigge il suo idolo incontrastato. E il suo stile di gioco ricalcava essenzialmente quello del calciatore tedesco.
Raffa lo conoscevo proprio bene perché nel nostro "Stadio Dei Sogni", cioè il campo di pattinaggio adibito a calcetto, all'oratorio qui a Cabiate giocammo contro o insieme millanta e più partite molto prima di quel giorno di maggio 1990 in cui si disputò la finalissima. Lui era un calciatore di quelli che appena vedeva uno spiraglio di porta, anche a distanze proibitive, non ci pensava due volte e calciava a rete con tutta la forza di cui era capace . Non era un venezia, nel senso letterale del termine, non era un innamorato della palla ma quando l'aveva tra i piedi nove volte su dieci calciava in porta. Lo sapevo, lo conoscevo bene.
Il giorno esatto della finale, purtroppo, non lo ricordo. Sicuro era nella seconda metà di maggio.
Quel giorno lì ci presentammo all'appuntamento privi del nostro "battitore libero": infatti il mitico Alberto (mi sembra di ricordare per un problema ad un occhio) non fu della partita.
Io perdevo il "mio Franco Baresi". Perdevo cioè quel giocatore che, davanti a me, faceva scudo con la sua elevata statura sulle palle alte.
La riunione di spogliatoio decretò che a sostituire Alberto sarebbe toccato allo "Zio" Fausto.
Quindi la nostra linea difensiva in quella partita finale cambiò.
Sapevamo che l'impresa sarebbe stata dura e quel contrattempo non facilitò certamente le cose.
A vedere la gara finale c'erano poche persone: qualche ragazzo delle altre classi e da Cabiate venne a vedermi il mio fraterno amico Bond, un fratello nel vero senso della parola: con lui avevo già condiviso in passato e avrei poi condiviso in futuro parecchie cose della mia gioventù, come la passione per la stessa ragazza, un piccolo ribaltamento in macchina ai tempi del nostro ventesimo anniversario e altre vicende nel cammino della vita. Quel pomeriggio di maggio era lì anziché al lavoro perché di lì a due giorni sarebbe partito per il servizio militare. Più in là nel corso della partita arrivò a vederci giocare anche la nostra compagna Margherita che si era fermata a scuola per le prove per la festa di fine anno dove lei suonava la chitarra.
Pronti via si partì e dopo nemmeno il giro di un minuto il nostro nuovo assetto difensivo andò a farsi benedire. Il buon Manti (che era stato battezzato come uno dei meno pericolosi del lotto avversario) alla prima palla che gli arrivò senza nemmeno fermarsi a pensare mi recapitò un missile terra-aria che se chiudo gli occhi ancora ricordo come fosse ora, si infilò alla mia destra a fil di palo, senza lasciarmi scampo.
Posso per certo immaginare la sfilza di improperi che mi uscirono di bocca.
Stare a guardia della "porteria" e prendere gol dopo meno di un minuto è qualcosa di straziante.
Tuttavia riuscimmo a riprenderci da quello "schiaffo" iniziale e ci portammo in avanti con buona determinazione verso la porta dei nostri avversari.
Quando mancavano una manciata di minuti alla fine del primo tempo ci fu un'azione confusa davanti alla porta di Citterio. Tanto confusa che io dalla mia porta non vidi pressoché nulla ma quello che più contò fu che il nostro "Zio" Faustino non si sa ancora bene come riuscì a spingere dentro la palla dell'1-1. Se Dio in quel momento esisteva per me non poteva che avere la faccia dello "Zio".
Come finì dentro quella palla è ancora oggi un mistero: qualche leggenda vuole che la buttò dentro con la coscia, qualche altra racconta che fu con la pancia e l'ultima volle che la butto dentro buttandosi dentro lui stesso nella porta. Boh !
Quello che è un dato di fatto è che lì pareggiammo le sorti dell'incontro e lì finì il primo tempo.
Fondamentalmente eravamo ancora in partita. Ce la potevamo ancora giocare.
Partì il secondo tempo.
Passarono forse cinque minuti, forse meno, il mio concittadino Raffa prese la palla e superò di un metro, forse due, la metà campo. Premetto che sulla mia patente di guida era riportata la dicitura "Guida con lenti". Soffrivo già di lieve miopia e leggere astigmatismo. A vedere lontano facevo un po' fatica. Poi per il resto avevo la giusta agilità e la giusta dose di coraggio e pazzia per stare a fare il portiere.
Il problema, nel caso, fu proprio in quel mentre che il buon Raffa mirò alla mia porta.
Da così lontano io avrei anche potuto ben immaginare che lui avrebbe tirato. E infatti lui lasciò partire il suo missile. Non lo vidi neanche partire, mi buttai con colpevole ritardo e vidi la palla che era già alle mie spalle. Tirai qualche bestemmia di fuoco. Eravamo sotto di nuovo.
Da lì non saremmo più tornati indietro. Anzi, poco dopo loro segnarono il 3-1 e poi il 4-1. Uno dei due gol, non ricordo se il terzo o il quarto me lo segnò ancora Raffa.
Ufficialmente avevamo perso.
Per quanto siano passati anni, tanti, la revisione storica mi impose da subito di riconoscere che una gran parte della colpa era la mia. Quel gol del 2-1 che presi colpevolmente da distanza siderale ci spezzò le gambe. Loro erano sicuramente atleticamente più possenti, più forti. Penso sempre al mio buon Raffa e considero ora come allora che avrebbe potuto essere la custodia del nostro Damocle.
Ciò non toglie che il nostro gioco fosse il più bello da vedere. Il più arioso. Il più fantasioso.
I nostri "piccolini" Damocle e Luigi erano come dei folletti del calcio, belli da vedere, veloci, decisivi. Come danzatori leggiadri i nostri si infilavano nelle difese avversarie e facevano sfaceli.
Tuttavia, quel giorno lì, si inceppò tutto il nostro sistema e certo anche la caratura degli avversari contribuì alla nostra debacle.
Mi faccio male e penso ora, come pensai allora, che a portieri invertiti forse la storia sarebbe stata diversa.
Ad ogni modo ricordo che alla fine della partita mi tolsi la maglia me la legai al collo come fosse un cappio e presi a testa bassa la via dello spogliatoio.
Non accennai a nessun saluto.
Non ringraziai neppure la nostra Margherita, unica sostenitrice, che era arrivata a vederci tra il primo e il secondo tempo. Ancora peggio mi comportai il giorno dopo quando commisi un terribile errore del quale ancora adesso, venticinque anni dopo, mi rammarico.
Appena entrai in classe al primo incrocio con lei le dissi che, essendo arrivata che stavamo pari ed essendo finita poi in goleada a favore dei nostri avversari, ci aveva praticamente portato un po' sfiga.
Considerato la straordinaria persona che era, lei non si sarebbe mai meritata di sentirsi dire una cosa del genere. Avevamo sin lì avuto sempre un ottimo rapporto. Ricordo un giorno a Vienna, durante la gita di quinta nel marzo 1990, che qualcuno la bagnò con un gavettone e io le passai il mio maglione per coprirsi. Non essendo un gran fusto la sera del giorno dopo avevo 39 di febbre e restai in albergo moribondo con lei che mi fece da crocerossina.
Ora non mi riconosco in quell'essere lì che faceva di una sconfitta sportiva un motivo per offendere gratuitamente. E questa cosa qua me la porto dietro come una sorta di fallimento "umano". Perché poi di questo si parla, dato che la partita fu una sconfitta ma quella cosa qua fu un fallimento.
A proposito di ciò mi rammento una frase dello scrittore americano William S, Burroughs:
"Un uomo può fallire molte volte,
ma non diventa un fallimento finché
non comincia a dare la colpa a qualcun altro."
Ecco.
Finalmente dopo tanti anni che avevo in mente di scriverla, questa storia l'ho scritta.
Magari qualcuno dei miei vecchi compagni che legge avrà qualche ricordo in più, o qualche rettifica, qualche precisazione o qualche altro pensiero. Dicono che lo stesso gol possa essere raccontato in tanti modi diversi quanti sono gli spettatori che vi abbiano assistito.
Quindi, se così fosse vi invito a scrivermi, senza indugi.
Non sono depositario che della mia memoria.
E quando mi dicono che vivo troppo dei miei ricordi penso che sia vero. E' certamente così.
Magari mi addormento la sera e mi viene in mente un volto, un nome. una storia.
Sono in ogni momento del mio tempo come un grande puzzle fatto da una infinitesima minuscola parte di tutte le persone che ho conosciuto, di tutte le cose che ho visto, letto, ascoltato.
Sono prendendo a prestito un titolo di Pirandello "Uno, Nessuno e centomila".
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