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martedì 8 novembre 2016

La favola di Christian Puggioni, portiere "ultras".

(Foto tratta dalla pagina Facebook di Puggioni)



di  Roberto Rizzetto

Quella di Christian Puggioni, attuale portiere blucerchiato, è una di quelle favole che solo il calcio sa regalare .
Ma partiamo dall'inizio. Christian nacque il 17.1.81 a Genova, sponda blucerchiata. Già, perché lui era tifosissimo della Sampdoria ancora prima che la squadra blucerchiata lo prelevò, ancora bambino, dall'U.S.Angelo Baiardo.
E con addosso la casacca della Samp giocò per ben nove stagioni , dai Pulcini alla Primavera, prima di essere aggregato nella prima squadra, nell'anno 1999-2000. Non trovò tuttavia spazio in quella formazione, impegnata nella serie cadetta ed allenata da Giampiero Ventura, futuro CT della nazionale italiana .  
Dalla stagione successiva iniziò un pellegrinaggio che lo portò a giocare rispettivamente a Varese, Borgomanero, Giulianova, Pisa, Reggio Calabria, Perugia, Piacenza e Verona sponda Chievo.
A Varese esordì tra i professionisti, il 1.10.2000, nella partita vinta 1-0 contro il Como. L'anno successivo, a Borgomanero in serie D, mantenne inviolata la propria porta per circa 700 minuti. Prima dell'esperienza a Giulianova del  2003, fece un provino  anche in Portogallo, nello Sporting Lisbona, ma l'affare non si concretizzò.
Nelle tre annate a Pisa, divenne anche il capitano della formazione nerazzurra e fu per un periodo il portiere meno battuto in Europa in una formazione professionistica, subendo solo 5 goal in 20 partite .
Con la maglia granata della Reggina debuttò in serie A, il 4.2.2007, Parma – Reggina 2-2. Grazie al prezioso contributo dato nella miracolosa salvezza della squadra calabrese ( partita da -11 ) divenne cittadino onorario della città di Reggio Calabria.
L'annata successiva, a Perugia, venne premiato come miglior giocatore perugino dell'anno. Nel 2010, tornato alla Reggina, venne eletto MVP dal pubblico reggino. Nel Chievo Verona, che si era garantito le sue prestazioni  sportive per i successivi tre anni, Christian stabilì con 515 minuti di imbattibilità nella massima serie il proprio record personale e della squadra.
Nonostante ciò la compagine clivense decise di privarsi dell'apporto del proprio estremo difensore, cedendolo a titolo definitivo al Genoa . Trasferimento che Puggioni, da tifoso Sampdoriano, non accettò provocando le ire del presidente  Campedelli che lo mise fuori squadra.
Puggioni intentò ( e vinse ) una causa di mobbing alla società veronese, prima di risolvere consensualmente il contatto.
E nel luglio 2015 il sogno di Puggioni di tornare a vestire l'amata maglia blucerchiata, dopo ben quindici anni, si concretizzò e Christian venne ingaggiato come terzo portiere, dietro al titolare Emiliano Viviano e all'emergente Alberto Brignoli. Quest'ultimo non verrà confermato per la stagione in corso, consegnando di fatto la maglia di “dodicesimo” a Puggioni.
Complice l'infortunio di Viviano, Christian farà a 35 anni il suo esordio in maglia blucerchiata (che può essere considerata a tutti gli effetti la sua seconda pelle) il 22.10.2016, proprio in occasione del centotredicesimo derby della lanterna.
Che contro i pronostici la Samp vincerà per 2-1 grazie anche al contributo di Puggioni, capace di reggere il peso della pressione e di gestire l'emozione provata quando, dopo aver assistito a tante partite dalla gradinata sud, feudo del tifo blucerchiato, si è trovato di colpo proiettato qualche metro più avanti, sul terreno di gioco dello stadio Luigi Ferraris di Marassi, proprio nel sentitissimo derby della lanterna.
Adesso sulla sua pagina facebook campeggia una scritta : “Onore a chi rispetta il suo primo amore, Puggioni uno di noi !”, ovvero il  contenuto dello striscione che la gradinata sud gli dedicò il 24.9.2014 prima di Sampdoria – Chievo .



(Le Gesta passate di Christian Puggioni)




domenica 6 novembre 2016

Breve ritratto di Alberto Jose Poletti il portiere più cattivo della storia del calcio.


Il nome di Alberto Jose Poletti è indissolubilmente legato allo straordinario filotto di vittorie che, tra il 1967 e il 1970, portarono il club argentino dell'Estudiantes de la Plata ai vertici del calcio mondiale.
Tre vittorie nella coppa Libertadores negli anni 1968, 1969 e 1970 e una vittoria nella coppa Intercontinentale nel 1968 ai danni del mitico Manchester United di Sir. Matt Busby spedirono direttamente la formazione argentina nella Leggenda del Calcio Mondiale.
Ciò nonostante, alle nostre italiche latitudini, il nome di Poletti resterà per sempre legato ai misfatti commessi dallo stesso e dai tremendi compagni di squadra dell'Estudiantes ai danni dei giocatori del Milan nella seconda gara della  finale di coppa Intercontinentale che si giocò alla Bombonera di Buenos Aires il 22 ottobre 1969.
Dopo la vittoria dei rossoneri allenati da Nereo Rocco  che, nella gara di andata, disputata allo Stadio Meazza (San Siro) in Milano l'8 ottobre 1969,  sconfissero l'Estudiantes per 3 reti a zero la gara di ritorno fu una vera e propria Guerra in Campo.
Gli argentini che già avevano nel mirino e particolarmente in odio il rossonero Combin, definito "traditore" perchè di origini argentine ma naturalizzato francese, iniziarono da subito a picchiare i giocatori del Milan ogni qualvolta uno di essi entrava in possesso di palla.
Il vantaggio  rossonero arrivò con Rivera  che, alla mezz'ora di gioco, su passaggio filtrante di Combin scartò Poletti in uscita e depositò la palla in rete.
Il gol, che di fatto mise in cassaforte il Trofeo a favore dei rossoneri, infastidì in maniera particolare Poletti che perse la trebisonda e iniziò il suo personale e show: prima calciò il pallone raccolto in fondo alla rete verso il centrocampo con la chiara idea  di colpire qualche giocatore rossonero e poi, non pago si scagliò sui rossoneri festanti colpendo il povero Lodetti.
Il portiere argentino colpì poi con un calcetto "simpatico" un giocatore rossonero infortunato a terra mentre il medico sociale Monti gli stava prestando le cure del caso.  Ciò nonostante, Poletti la passò sempre franca con l'arbitro cileno Domingo Massaro che parve chiaramente poco adatto alla direzione di una gara di tale spessore.
Nonostante due gol segnati dall'Estundiantes, il risultato finale di 2-1 per gli argentini, consentì al Milan di vincere il Trofeo.
Ci furono due espulsi tra gli argentini, Aguirre-Suarez che mise k.o. proprio Nestor Combin con una violenta gomitata e poi Manera che sferrò un pugno a Rivera.
Ma la conta più numerosa fu quella dei "feriti" rossoneri: il portiere Cudicini, Rivera, Maldera, Combin, Prati. Fu una Guerra più che una partita di calcio.
Ma lungi dall'essere soddisfatto, il "buon" Poletti mise a segno il capolavoro finale allorchè pensò bene di unirsi ai festeggiamenti rossoneri  scagliandovisi contro come un pazzo. 
Indubbiamente una "figuraccia" di fronte agli occhi di tutto il mondo del calcio puntati, quella notte, su Buenos Aires.
Il giorno dopo quella Guerra, la federazione di calcio argentina, che aveva nella dittatura militare il suo cuore pulsante fu praticamente "costretta" a silurare il "buon" Poletti. Il portiere fu radiato a vita da ogni competizione per dare l'"esempio" agli altri esagitati animi che si muovevano nel movimento calcistico argentino.
Dopo poco meno di un anno da quella pazza notte di ottobre, tuttavia, Alberto Poletti fu graziato. Tornò a giocare ma senza mai scrollarsi di dosso la fama, pessima, che si era fatto in una sola notte.
Molti anni dopo, in alcune interviste rilasciate a tv argentine, il portiere si difenderà  raccontando che, in fondo, il Calcio di quei tempi, in America Latina era fatto così: roba per uomini duri ... e hijo de puta ... anche.






(22-10-1969 Estudiantes - Milan 2 -1. Le pazzie di Poletti)



(Alberto Poletti e la sua versione dei fatti.)







sabato 5 novembre 2016

Rodolfo Rodriguez e le sue miracolose parate in una notte di luglio del 1984


Accadde il 14 luglio 1984 allo stadio Vila Belmiro di Santos, San Paolo,  in Brasile.
Quel sabato sera, in una gara valida per il Campionato Paulista, si affrontavano i padroni di casa del Santos opposti all'America di Rio Preto.
Se, al termine di quella gara, fosse stato chiesto agli spettatori presenti all'incontro chi fosse il miglior portiere al mondo, sicuramente una buona parte di questi non avrebbe avuto dubbi nell'indicare nel portiere Santos il numero 1 dei numeri 1.
L'uruguagio Rodolfo Sergio Rodriguez y Rodriguez, portiere della nazionale di calcio della Celeste, era appena approdato al Santos dopo anni passati in patria a difesa della porta del Cerro prima e del Nacional poi.
Rodriguez era già una Leggenda in Sud America. 
Portiere dallo stile sobrio ed essenziale,  dotato di un ottimo senso della posizione, Rodriguez era già stato grande protagonista della vittoria del Nacional nella coppa Libertadores del 1980 e quindi fu sempre lui a contribuire in maniera determinante al successo del Nacional nella Coppa Intercontinenate del febbraio 1981 allorchè gli uruguagi ebbero la meglio sugli inglesi del Nottingham Forest. In quella gara Rodriguez fu determinanate e vinse il premio come miglior giocatore della partita.
Rodriguez era anche titolare indiscusso della maglia numero 1 della nazionale tra i pali della quale fu grande protagonista nella vittoria del  Mundialito del 1980 prima e della Coppa America nel 1983 poi.
Al Santos, insomma, approdò un portiere con un Palmares più che eccellente.
Ed appena arrivato contribuì, a modo suo, a far vincere al Santos il Campionato Paulista del 1984 riportando in bacheca un trofeo che mancava da sei anni.
La notte del 14/07/1984 passerà alla storia come la notte dei miracoli di Rodriguez.
In un'azione d'attacco dell'America il portiere uruguagio compì quattro autentici miracoli nel breve spazio di tredici secondi.
Qualcosa di soprannaturale.
Dopo aver salvato la porta in collaborazione con il palo su un tiro dalla distanza, Rodriguez si oppose a due conclusioni successive e ravvicinate degli attaccanti dell'America. Sulla terza ribattuta, miracolosa,  la palla respinta dal portiere fini fuori area dove ancora un giocatore dell'America calciò verso l'angolino destro. Ma ancora una volta Rodriguez si allungò a deviare la sfera che finì però nuovamente sui piedi di un giocatore dell'America che calciò a colpo sicuro trovando questa volta il palo a salvare la porta del Santos. 
Per completezza di informazioni quella partita il Santos la vinse per due reti a zero dove in quello zero trovarono posto tutti i miracoli di Rodriguez.
Subito eletto Eroe dai tifosi del Santos tutt'ora Rodriguez è considerato uno dei tre migliori portieri uruguagi di ogni  tempo condividendo il podio con Leggende che rispondono ai nomi di Ladislao Mazurkiewicz e Roque Maspoli. 
Una Bella Compagnia.




(I miracoli di Rodriguez14/07/1984  Santos - America 2-0)



(Rodriguez "Hombre del Partido" - Finale Intercontinentale 81  - Nacional vs. Nottingham F.  1-0 )









martedì 1 novembre 2016

Raffaele Di Fusco, una vita da "dodicesimo"


di Roberto Rizzetto


Tra i portieri che vestirono a lungo la “casacca numero dodici” una menzione particolare la merita sicuramente il napoletano Raffaele Di Fusco.
La diciassettesima edizione del campionato primavera , quella del 1978-79, vide trionfare ( per la prima e finora unica volta ) il Napoli allenato da Mariolino Corso. Di quella formazione facevano parte Caffarelli, Celestini, Raimondo Marino e Musella, oltre al già citato Di Fusco.
Dopo un altro anno giocato nella “primavera” partenopea il portiere venne mandato in prestito a “farsi le ossa” nella serie cadetta, nelle file del L.R.Vicenza. Qui rimase ben tre anni ( gli ultimi due in serie C1 ), collezionando tuttavia soltanto 26 presenze.
Non andò meglio nei due anni successivi, quando, tornato ai piedi del  Vesuvio, trovò rispettivamente Luciano Castellini e Claudio Garella ( fresco campione d'Italia con l'Hellas Verona ) a “sbarrargli la strada”.
Giocò invece da titolare la stagione successiva, a Catanzaro, in serie B .
Ma la formazione calabrese incappò in un'annata disastrosa, che culminò inevitabilmente con la retrocessione in serie C1.
Le dodici stagioni successive Di Fusco le disputò tutte nella massima serie, nove ancora a Napoli e tre a Torino sponda granata.
Nella seconda fase della sua carriera napoletana fu il vice ancora di Garella, del compianto Giuliano Giuliani, di Giovanni Galli e di Pino Taglialatela.
Nei tre anni in maglia granata l'estremo difensore titolare fu invece un emergente Luca Marchegiani.
Nonostante un palmares di tutto rispetto (2 scudetti, 2 coppe italia ed una coppa Uefa ) Di Fusco terminerà la carriera con la miseria di 36 presenze nel massimo campionato.
Troverà comunque il modo di passare alla storia quando, l'11.6.89, l'allenatore partenopeo Ottavio Bianchi, in aperta polemica con la società colpevole di non avergli messo a disposizione una rosa adeguata (e complici i numerosi infortuni) lo schierò nel ruolo di attaccante negli ultimi undici minuti dell'incontro Ascoli – Napoli, vinto poi dai marchigiani per 2-0.
Terminata la carriera agonistica nel 98, Di Fusco intraprese l'attività di allenatore e di preparatore dei portieri.
Farà ancora parlare di sé inventando e brevettando il “deviatore di traiettoria”, uno strumento ora comunemente utilizzato nell'allenamento dei portieri.


(Di Fusco ai tempi del Napoli)







(Ascoli-Napoli 2-0 con Raffaele Di Fusco centroavanti)




(Raffaele Di Fusco e il suo deviatore di traiettoria)




Quando Jean-Marie Pfaff spaventò Frank Mill che solo davanti alla porta vuota centrò il palo.


Accadde nel pomeriggio di sabato 9 agosto 1986.
Per la prima giornata di Bundesliga edizione 1986/1987 i campioni in carica del Bayern Monaco ospitarono il Borussia Dortmund all'Olympiastadion.
La partita, di per sè non certo memorabile,  passerà alla Leggenda per via del clamoroso errore del  centro attacco del Dortmund Frank Mill.
Definito anche "Miss of the century" l'errore di Mill fu di certo propriziato dalla pressione che il portiere belga del Bayern Monaco Jean-Marie Pfaff esercitò su di lui rincorrendolo alla disperata.
Accadde che Frank Mill, smarcato da un compagno di squadra con un passaggio filtrante poco oltre la metà campo bavarese, scattò veloce verso l'area di rigore avversaria eludendo la tattica del fuorigioco degli uomini di Udo Lattek.
Frank Mill si trovò così  con una prateria davanti a se e con solo il portiere del Bayern  Pfaff di fronte.
L'estremo difensore belga cercò di fermare l'attaccante con un uscita disperata ma Mill  riuscì  ad eluderne l'intervento spostandosi la palla,  con un abile finta, verso destra.
Eluso il portiere belga Frank Mill si trovò leggermente decentrato sulla destra ma dannatamente solo di fronte alla porta.
E qui avvenne l'inspiegabile.
Anzichè  calciare subito nella porta vuota l'attacante del Dortmund proseguì la sua corsa palla al piede mentre dietro di lui un disperato e affannato Pfaff  lo rincorreva alla bene & meglio.
Cosa si inceppò nell'attaccante tedesco in  quel pomeriggio d'agosto del 1986 resterà per sempre un mistero ma è un fatto che, giunto praticamente a un metro dalla linea di porta, Mill si trovò il pallone goffamente  tra le gambe e con Pfaff praticamente attaccato alle sue caviglie non trovò di meglio che calciare il pallone sul palo.
Ancora adesso, che da quel giorno sono passati oltre  30 anni, quell'errore pesa come un macigno sul "tabellino" di  Frank Mill, uno che  ha realizzato oltre 200 reti in carriera.
A suo modo determinante possiamo (forse) considerare la disperata rincorsa di Pfaff, Eroe belga che, val bene ricordarsi, in quell'estate 1986 fu il miglior  portiere del Mondiale di Calcio in Messico.
La partita finì negli annali della Bundesliga con il risultato finale di 2-2 ma per Mill, che oltretutto in quella gara era all'esordio con la maglia del Dortmund,  probabilmente fu una di quelle gare che non finiscono mai ... 



(09/08/1986 L'incredibile Errore di Frank Mill)



Claudio Taffarel il brasiliano che lasciò la pallavolo e divenne Campione del Mondo di Calcio



In uno dei pirmi articoli di giornale che, nell'estate 1990, presentavano ai lettori italiani il nuovo portiere del Parma, il brasiliano Claudio Taffarel, si raccontava di come il biondo numero 1 carioca avesse in realtà iniziato la sua attività agonistica come giocatore di pallavolo.
Taffarel veniva così presentato come uno che con le mani, in ogni caso,  ci sapeva fare.
L'approdo in quel di Parma del portiere brasiliano generò non poca curiosità equamente condivisa tra sostenitori ed addetti ai lavori.
Detta in tutta sincerità non è che la nomea dei portieri brasiliani, all'epoca, fosse particolarmente considerata in ambito internazionale.
Spesso usato come luogo comune il nome e il ricordo del disastroso numero 1 carioca ai tempi del Mundial 1982, il "mitologico" Valdir Peres, si agitavano  come fantasmi addensando sul giovane Taffarel oscuri presagi.
In realtà le cose andarono ben diversamente e l'approdo del portiere brasiliano in quel di Parma coincise con alcune vittorie "storiche" del club emiliano, come la Coppa Italia vinta nella stagione 1991/1992 e la conseguente vittoria della Coppa delle Coppe del 1992/1993.
L'esordio in Serie A il  9/9/1990 al Tardini di Parma contro la Juventus si chiuse con una sconfitta per 2 reti ad 1 ma il portiere brasiliano, ad appena 24 anni, già fece intravedere buone cose.
Portiere poco propenso al volo spettacolare e titolare di uno stile molto sobrio ed essenziale Taffarel fu anche uno straordinario para-rigori e conquistò il cuore dei tifosi emiliani in breve tempo.
Nelle prime due stagioni passate a Parma Taffarel fu titolare indiscusso e giocò tutte dei due tornei da titolare.
Nella stagione 1992/1993 dovette concedere spazio al suo secondo, Marco Ballotta, e così, visto che ormai la fiducia del tecnico Nevio Scala sembrava sempre più orientata verso l'italiano, nella stagione 1993/1994 Taffarel lasciò il Parma per andare a difendere i pali della Reggiana neo-promossa in serie A.
Per ironia della sorte, proprio a Parma, provenienete dalla Reggiana, in una sorta di passaggio di consegne era approdato l'astro nascente tra i portieri italiani: Luca Bucci.
La Reggiana, con il contributo del portiere brasiliano, nella primavera del 1994 si salvò in extremis dalla retrocessione in serie B.
Tuttavia l'avventura del portiere brasiliano con gli emiliani si esaurì al termine di quella tribolata stagione.
Neanche il tempo di festeggiare la salvezza che i guantoni del portiere brasiliano erano già pronti per altre e ben più impegnative parate: l'estate del 1994 fu quella dei Mondiali di Calcio in U.S.A.
L'estate della consacrazione definitiva del talento del portiere brasiliano.
Titolare fisso della maglia numero 1 della nazionale carioca, già dal 1988, Taffarel vide compiersi il suo destino sportivo il 17 luglio di quel 1994 allorchè con le sue parate ai calci di rigore contribuì a portare il Brasile sul tetto del Mondo.
Quel giorno lì (che molti di noi tifosi azzurri ricordano bene - qui era notte e piovigginava) Claudio Andrè Taffarel entrò  di diritto nella Storia del Calcio Mondiale.
Un Eroe del Popolo Brasiliano.



(Claudio Andrè Taffarel)






  




Roberto Corti e la magica stagione 1979/1980 al Cagliari



Ho imparato a conoscere  la Storia del Calcio Italiano leggendo,  sin da giovanetto,  i racconti di celebri firme sportive  come quelle di Gianni Brera e Vladimiro Caminiti (per citarne due).
Scomparsi Loro (Grandi Maestri  depositari delle Leggendarie Gesta di centinaia e centinaia di "Pedatori" dell'italico Stivale) il testimone è passato a "giovani" leve che ne hanno continuato il lavoro.
Ora come ora una tra le firme più autorevoli in assoluto in fatti  di "pallone"  è quella di Carlo Felice Chiesa.
Il giornalista di Bologna dal 2012 ha iniziato a pubblicare sulle pagine del Guerin Sportivo (dove lavora da più di vent'anni) un'opera a puntate mastodontica: "La Grande Storia del Calcio Italiano".
Anno per anno le vicende del nostro massimo campionato sono passate ai raggi X. 
Scritta con uno stile molto vicino a quello dei "Maestri" l'Opera di Chiesa è ricca di riferimenti ai miei tanto amati portieri: uno per stagione viene incoronato a "Saracinesca" del campionato.
Nell'ultimo numero (ancora in edicola) Chiesa racconta della stagione 1979/1980 quella che consacrò Campione d'Italia l'Inter di Bersellini, ma anche quella del Calcio Scommesse che vide finire in galera alcune leggende (tra cui il nostro leggendario portiere rossonero Ricky Albertosi).
Miglior Portiere della stagione 1979/1980 viene incoronato un debuttante assoluto nel massimo campionato: Roberto Corti portiere del Cagliari.
Orginario di Treviglio, in provincia di Bergamo, classe 1952  Corti  fu uno dei grandi protagonisti della promozione del Cagliari in serie A nella stagione 1978/1979.
Approdato con i sardi nella massima serie del campionato italiano di calcio  Corti giocò tutte le trenta partite della stagione 1979/1980 segnalandosi come uno dei più talentuosi numeri uno del torneo.
Vale la pena di ricordare che all'epoca,  partendo dal portiere campionde d'Italia di quella stagione, l'interista Bordon, passando per lo juventino Zoff, il giaguaro Castellini del Napoli e il "brianzolo" Terraneo del Torino, di grandi portieri ne giravano parecchi.
L'ottima stagione di Roberto Corti tra i pali, e la notevole vena realizzativa del centroavanti   Franco Selvaggi (con i suoi 12 gol stagionali) sempre ben assistito dal regista Mario Brugnera  consentirono al Cagliari di piazzarsi al nono posto nella  classifica finale  consentendo così agli isolani di proseguire l'avventura in massima serie.
Nella stagione successiva, 1980/1981,  le cose vanno ancora meglio e Corti, sempre presente nelle trenta partite stagionali vide i suoi piazzarsi al sesto posto in classifica. Lui difendeva, egregiamente, la rete degli isolani e, al contempo, poteva godersi lo spettacolo di una coppia gol ben assortita come quella composta da Franco Selvaggi (8 reti) e dal "Tamburino Sardo" Pier Paolo Virdis (5 reti).
Nella stagione successiva, l'ultima di Corti in Sardegna, il Cagliari si salvò per il rotto della cuffia.
La carriera di Corti proseguì poi nell'Udinese per una stagione e ad Ascoli per ben cinque stagioni.
Ancora oggi, nel ricordo di chi visse in prima persona  quella stagione 1979/1980,  la figura di Roberto Corti viene ricordata con stima ed affetto.
Il numero uno di origini bergamasche lasciò di sè un ottimo ricordo in Sardegna.
Personaggio e Gentiluomo di quel Calcio che mi piace raccontare in queste righe ... un Calcio dove il tempo è relativo  e dove dopo 40 anni il ricordo sportivo e quello umano viaggiano sullo stesso piano.



(Roberto Corti in azione ...  Fiorentina-Cagliari 1 -1  - stagione 1979/1980)









sabato 29 ottobre 2016

Le lacrime di Arzù


di Roberto Rizzetto

In occasione dei mondiali del 1982 la Fifa allargò a 24 il numero delle squadre finaliste , riservando ben sei posti ad Asia,  Africa, Oceania e Centro America .
Le nazionali che staccarono il pass per “Espana 82” furono Kuwait , Nuova Zelanda , Camerun , Algeria , El Salvador ed Honduras .
Quest'ultima compagine in particolare aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie prima di accedere , per la prima volta nella sua storia , alla fase finale dei mondiali , superando ben due gironi di qualificazione . Eliminò dapprima Guatemala , Costarica e Panama e successivamente Messico , Canada ed Haiti .
Il team centroamericano venne inserito nel gruppo G, insieme ad Irlanda del Nord, Jugoslavia ed ai padroni di casa spagnoli.
Il commissario tecnico honduregno, tale Josè de la Paz Herrera, presentando la propria nazionale ai giornalisti disse: “Siamo qui per diventare la squadra simpatia !”. E l'Honduras si dimostrò davvero in grado di “catturare” il gradimento del pubblico. Era una delle poche nazionali a non alloggiare in un albergo di lusso. Il governo honduregno aveva chiesto ed ottenuto una linea telefonica diretta tra il paese e l'hotel in cui i giocatori, tra un rito scaramantico e l'altro (tra cui quello della benedizione delle bevande) preparavano il loro debutto.
Ciò avvenne il 16.6.82, a Valencia, davanti a 50.000 spettatori, proprio contro i padroni di casa spagnoli. Entrando in campo i calciatori centroamericani offrirono garofani al pubblico, poi sfoderarono una prestazione gagliarda tanto che le “furie rosse” riuscirono soltanto nella ripresa  a riequilibrare ( su rigore ) le sorti dell'incontro.
Con il medesimo risultato di 1-1 terminò anche la gara successiva, che si disputò cinque giorni dopo a Saragozza, contro l'Irlanda del Nord .
Nelle prime due partite l'Honduras dimostrò di possedere tecnica e qualità , mettendo in vetrina giocatori di sicuro rendimento quali l'attaccante Roberto Figueroa, il centrocampista Gilberto Yearwood ( che venne successivamente eletto calciatore honduregno del secolo ) e l'estremo difensore Julio Cesar  Arzù. Quest'ultimo era un portiere ventiquattrenne, poco dotato fisicamente  ( alto soltanto 178 centimetri ) ma con doti di agilità e reattività fuori dal comune. Indossava la maglia numero 21.
Anche nell'incontro decisivo per la qualificazione al turno successivo che si disputò sempre a Saragozza giovedì 24.6.82 Arzù sfoderò interventi di assoluto rilievo, ma alla squadra centroamericana mancò, oltre ad un po’ di fortuna,  anche un pizzico di esperienza e di cinismo. Le numerose occasioni da goal create non furono infatti concretizzate e, a due minuti dal triplice fischio finale, la Jugoslavia passò in vantaggio su un calcio di rigore quantomeno dubbio. All'Honduras sarebbe bastato un pareggio per accedere alla seconda fase a gironi …
Al termine dell'incontro Arzù rimase a lungo disteso sul terreno di gioco dello stadio “La Romareda” piangendo a dirotto .
La vetrina mondiale gli permise tuttavia di ottenere un ingaggio per la stagione successiva proprio in Spagna, nel Racing Santander. 
E quando qualche mese dopo venne organizzata, in favore dell'Unicef, a New York la sfida Europa – Resto del Mondo a difendere la porta della selezione mondiale furono convocati il camerunense Thomas N'Kono e proprio Josè Cesar Arzù. 
Quest'ultimo successivamente divenne il preparatore dei portieri della nazionale honduregna, prima di tornare a calcare i campi di gioco, nella “Lega dei veterani”  nel ruolo di … centravanti !
Già, perché quando giocava portiere c'erano partite in cui gli attaccanti non tiravano mai , e lui si annoiava . In attacco invece trovava sempre qualcosa da fare ...

La leggenda del "Sant'Angelo Bernabeu"


di  Roberto  Rizzetto 


Cabiate non è soltanto la “piccola Parigi” della Brianza, è anche il paese in cui vive e lavora Vincenzo Visentin , uno dei migliori portieri in assoluto . Almeno per quello che mi riguarda …
I protagonisti della storia che sto per raccontare sembrano usciti dal testo della canzone “Gli anni” degli 883. Erano infatti gli anni d'oro del grande Real , capace di vincere due Coppe Uefa consecutive grazie ad incredibili rimonte a Madrid che ribaltavano le pesanti sconfitte rimediate durante gli incontri d'andata. Anni dopo , Jorge Valdano , il bomber argentino che insieme ad Hugo Sanchez ed Emilio “El Buitre” Butragueno formava il fenomenale trio d'attacco madridista di quel periodo rivelò che a bloccare psicologicamente le squadre avversarie era  quello che lui stesso definì “miedo escenido” , ovvero la “ paura del palcoscenico” che attanagliava i giocatori avversari quando entravano sul terreno di gioco dello stadio “Santiago Bernabeu” .
E Vincenzo , il portiere di cui voglio parlarvi , ne sa qualcosa .
Infatti lui , interista convinto , aveva visto per due anni di fila i propri beniamini uscire mestamente da quella competizione calcistica proprio per mano del Real . In entrambi i casi le vittorie a San Siro dei nerazzurri per 2-0 e per 3-1 furono poi vanificate nella bolgia del “Bernabeu” , rispettivamente per 3-0 e   5-1.
Erano gli anni delle immense compagnie. E quella di cui io e Vincenzo facevamo parte contava quasi una ventina di elementi , anche se gli avvicendamenti erano all'ordine del giorno .
Erano gli anni del motorino , in genere il Ciao , ( quasi ) sempre in due . A dispetto della pioggia , del freddo e dei vigili urbani …
Per intenderci sto parlando della metà dei famigerati anni ottanta .
A dire il vero , Vincenzo , per onor di cronaca , non era nemmeno un portiere .
In realtà lui era un difensore . Mancino , forse un po' ruvido , comunque poco propenso all'impostazione di gioco . Più portato a fermare l'attaccante avversario , con le buone o , se necessario , anche con le cattive .
Dopo tanti campionati nell'Osa ( Oratorio Sant'Angelo ) Lentate , qualche stagione a Rovellasca ed una fugace apparizione nelle giovanili del Como , sempre schierato nella parte sinistra della difesa guidata al centro dal suo compagno di mille battaglie Gianni Cappelli , aveva appeso le classiche scarpette al chiodo .
Già , perché  lui , anche senza andare tanto lontano , la paura del palcoscenico l'avvertiva davvero ...
E chi ha calcato i campi di calcio , anche quei piccoli campetti semideserti degli oratori , sa quale atmosfera carica di tensione si respira negli spogliatoi negli attimi che precedono ogni gara.
E , per chi vive le emozioni in maniera  intensa , questa tensione alla lunga può diventare logorante ...
In ogni caso , quelle scarpette appese al chiodo potevano sempre essere rispolverate per le partitelle tra gli amici della nostra compagnia che disputavamo, generalmente alla domenica sera, nel campetto dell'oratorio Sant'Angelo di Lentate sul Seveso .
Abbastanza frequenti erano anche le sfide che ci vedevano impegnati contro squadre avversarie e che si disputavano immancabilmente in questo campo .
E sarà che su quel terreno di gioco ci eravamo praticamente cresciuti , sarà che qualche elemento coi piedi buoni , nella nostra compagine , ce l'avevamo pure , fatto sta che la nostra squadra , al momento, risultava ancora  imbattuta. 
Fu così che ribattezzammo “Sant'Angelo Bernabeu” quello che era divenuto il nostro “fortino inespugnabile”.
In realtà era un campo di terra e ghiaia . D'estate ogni passaggio rasoterra provocava una scia di polvere che seguiva la palla ed ogni caduta causava inevitabili abrasioni . Ed io ne so qualcosa visto che di quella squadra ne ero il portiere titolare . Non tanto per meriti sportivi ma semplicemente perché , del gruppo di cui sto parlando , ero l'unico portiere .
Almeno fino a quando non arrivò Vincenzo ad insidiarmi il posto .
Già , perché lui , oltre alla fede nerazzurra nutriva un “amore” viscerale per l'estremo difensore nerazzurro Walter Zenga , tanto da volersi cimentare tra i pali per emularne le gesta .
Così diventammo antagonisti nelle “partitelle in famiglia” mentre nelle sfide contro le squadre avversarie, da amici fraterni quali eravamo ( e siamo da sempre ) giocavamo un tempo a testa . E , dato che a Vincenzo mancava qualche diottria , io giocavo la mia “mezza partita” tra i pali della porta sul lato dell'ingresso principale dell'oratorio , quello di Via De Amicis . Lui invece difendeva la porta sul lato opposto ( che era illuminato meglio ) , quello alle cui spalle c'era la Fabbrica Mauri .
Un giorno di una trentina di anni fa a lanciarci il cosiddetto guanto di sfida fu , per ironia della sorte , Gianni Cappelli . Gianni , come già detto in precedenza , era un difensore davvero “tosto” che aveva disputato parecchie partite a fianco di Vincenzo oltre ed aver “bazzicato” fino a poco tempo prima il nostro gruppo di amici .
La squadra avversaria poteva poi contare su elementi di assoluto rilievo .
Gianluca Ripamonti era un portiere esperto ed affidabile . Aurelio Monzani detto “Terry” un giocatore in grado di fare la differenza e l'attaccante Nicola Papa era riconosciuto da tutti come il calciatore più talentuoso della nostra ( mia e di Vincenzo ) leva ; il 1968 .
Ai tempi non esistevano le scommesse sportive , al massimo si giocava al Totocalcio . Ma se ci fossero stati i bookmakers una nostra eventuale vittoria sarebbe stata quotata davvero bene . In ogni caso era palese che la nostra imbattibilità era in serio pericolo .
Il giorno della partita il sorteggio fece si che fu Vincenzo a disputare il primo tempo . Lui , tra i pali , aveva evidenti limiti tecnici ma sapeva sempre mettere il cuore oltre l'ostacolo . Fu anche grazie a lui se , ALLA FINE DEL PRIMO TEMPO, nonostante l'evidente superiorità tecnica dei nostri avversari , la nostra squadra era ancora in partita, anche se sotto di due goal .
Nella ripresa, dopo l'assegnazione di un rigore alquanto dubbio trasformato da Nicola Papa , avvenne l'impensabile .
L'orgoglio , misto ad una lucida follia , ci spinse a ribaltare il risultato ed a vincere la partita grazie ad un goal nel finale siglato da Michele Delle Foglie detto “Kamy” , ( diminuitivo di Kamykaze ) , una “meteora” venuta per un breve periodo a mettere scompiglio all'interno della nostra compagnia ed a permetterci di mantenere inviolata l'imbattibilità al “Sant'Angelo Bernabeu” .

Vincenzo appese i guantoni al chiodo quando Walter Zenga terminò la propria carriera , mentre le scarpette da calcio le abbandonò più tardi , dopo aver reso la vita dura agli attaccanti incontrati nei tornei che successivamente la nostra squadra disputò , senza mai troppa fortuna a dire il vero . Ma questa è un'altra storia …
Probabilmente , in cuor suo , sperava che suo figlio ripetesse le sua gesta sportive . Ma Luca evidentemente la “paura del palcoscenico” non la sente , visto che calca con brillante personalità i palcoscenici dei teatri della zona portando in scena meravigliosi musical .
Vi chiederete che fine hanno fatto gli altri protagonisti di questa storia .
Gianni Cappelli , che vedo ancora saltuariamente , è rimasto il pazzoide che era ai tempi , come se per lui il tempo non fosse passato .
Michele Delle Foglie detto “Kamy” ha vissuto la vita tutta d'un fiato , bruciandosi in fretta in un fuoco indimenticabile . Di lui mi sono rimaste tre audiocassette da lui stesso registrate in presa diretta , chitarra e voce , ed un bel ricordo .
Un Nicola Papa visibilmente imbolsito si era rimesso in gioco qualche anno fa . Insieme abbiamo disputato un campionato over 35 nel GSO Camnago .
Peccato che ci siamo imbattuti in squadre avversarie che schieravano calciatori senza un filo di pancia , ancora integri fisicamente e dalla tecnica sopraffina , visto che qualcuno di loro aveva addirittura militato in serie A . Non abbiamo rimediato una bella figura …
Il “Sant'Angelo Bernabeu” adesso è un campo in sintetico nel quale giocano e si allenano diverse squadre dell'OSA Lentate .
Il presidente di questa società è l'ex portiere Gianluca Ripamonti mentre Aurelio “Terry” Monzani ne è stato allenatore ed ora è uno dei principali dirigenti . Ed anch'io , a tutt'oggi , sono un'atleta tesserato per questa società .
Disputiamo il campionato “open a 7” nel distretto di Milano militando in serie C .
Tra acciacchi vari e ricorrendo anche a qualche seduta di fisioterapia mi confronto con portieri che hanno almeno vent'anni meno di me e che potrebbero essere miei figli .
E' impensabile per me competere con loro per un posto da titolare .
Però mi piace fare parte di questo gruppo . Così cerco di farmi trovare pronto nelle poche situazioni in cui vengo chiamato in causa .
In quello che una volta avevamo ribattezzato “Sant'Angelo Bernabeu” ci alleniamo una volta alla settimana in vista della partita di campionato del sabato .
Niente di particolarmente impegnativo . Un'oretta scarsa di esercizi , poi la consueta partitella .
E mentre il mister consegna le pettorine scegliendo di fatto le due squadre , io prendo il mio posto tra i pali della porta sul lato dell'ingresso principale dell'oratorio , quello di Via De Amicis . La porta sul lato opposto , quello illuminato meglio alle cui spalle c'è ancora la Fabbrica Mauri ,  la lascio a  Vincenzo Visentin , uno dei migliori portieri in assoluto . Almeno per quello che  mi riguarda …












martedì 25 ottobre 2016

Breve storia di Volker Ippig icona del St. Pauli





Il giovane Volker Ippig divorava la bibliografia di Carlos Castaneda. Gli anni ottanta erano appena iniziati e il ragazzo, un gigante di un metro e ottantasei centimetri, giocava in porta con il tsv Lenshan, la squadra della sua città, cento chilometri a nord di Amburgo. Leggeva di guerrieri e battaglie, e della necessità di seguire il cammino indicato dal cuore; leggeva libri che lo invitavano a sperimentare sostanze sconosciute e a lavorare duramente. Nel frattempo andò a giocare con il St Pauli, il club povero di Amburgo, che lo ingaggiò per le giovanili quando aveva diciott’anni, anche se l’anno successivo era già il secondo portiere della prima squadra, in terza divisione. E lì, tutto acquistò un senso. Volker Ippig, con la sua criniera bionda e scapigliata, cominciò a impregnarsi della cultura del movimento che stava inondando di vita questo quartiere portuale e operaio di Amburgo: gli squatter. Viveva con loro e pensava come loro. Il quartiere era e continua a essere il quartiere rosso di Amburgo. All’inizio degli anni ottanta vi si mescolavano prostitute, lavoratori, punk, attivisti di sinistra, tossici. E poi una squadra di calcio con la maglia marrone, il St Pauli, si trasformò nel centro di tutto. Se un tempo i tifosi che occupavano gli spalti erano poche centinaia, ora erano diventati una piccola moltitudine. Allo stadio si affollavano creste, giacche di cuoio e bandiere di Che Guevara. Il quartiere era sempre più multicolore, e il club pure. Ogni cosa veniva messa in dubbio. La bandiera pirata divenne il suo emblema, e l’attenzione internazionale verso il fenomeno cominciò a crescere. Oggi il St Pauli continua a essere un simbolo mondiale della sinistra calcistica. Nessuno meglio di Volker Ippig, il portiere che andava all’allenamento in bicicletta o in autobus, simboleggiava tutto ciò che il St Pauli rappresentava. Scendeva in campo con il pugno alzato e i tifosi lo adoravano. La sua marcata coscienza sociale lo trasformò in un modello per tutto il quartiere. Non rinunciò mai a essere quello che era, e nessuno glielo chiese. Al contrario: diventò il simbolo della più grande rivoluzione mai vista in uno stadio di calcio. Il tizio che indossava i guanti era il guardiano della porta e della rivolta. Fino ad allora il St Pauli non aveva mai avuto una tradizione di sinistra, e negli anni novanta la politicizzazione della tifoseria cominciò a scemare un po’ quando alcuni gruppi organizzati si mobilitarono in difesa di un cantante punk che era stato accusato di violenza sessuale. I casi di presidenti della società dichiaratamente progressisti sono pochi: si è sempre trattato di un fenomeno esclusivo dei tifosi. Ma nel 2002 al vertice del club arrivò Corny Littman, che ci sarebbe rimasto fino al 2010. Littman, regista teatrale omosessuale e uomo di cultura, si impegnò affinché il club riconquistasse il suo profilo più politico. Un profilo che, a dire il vero, non era stato del tutto snaturato dallo scorrere del tempo, soprattutto grazie alla maggioranza dei tifosi. Questi nel 1999 furono capaci di costringere la dirigenza a cambiare il nome dello stadio, che dal 1970 si chiamava Wilhelm Koch (come l’ex presidente del club di cui si seppe che era stato membro del Partito nazista e coinvolto nello spoglio di beni degli ebrei). Nel 2009 obbligarono la società a ritirare dallo stadio la pubblicità di una bevanda energetica chiamata Kalte Muschi (in italiano «figa fredda»). Il quartiere ha ventisettemila abitanti, e la capienza dello stadio Millerntorn è di ventitremila posti. Esistono cinquecento St Pauli club in tutto il mondo, e solo in Germania la sua base di simpatizzanti si stima intorno agli undici milioni di persone. È un fenomeno globale e un simbolo della sinistra che include nei suoi principi ufficiali «il rispetto di tutti i rapporti umani» e l’obbligo del club di impegnarsi politicamente e socialmente sul territorio, idee che furono dibattute e votate in un congresso del 2009. Il suo stadio si dichiara «zona libera dal razzismo e dall’omofobia», e può vantare la più grande percentuale di abbonati del calcio tedesco. Il St Pauli ha giocato in Bundesliga, ma anche in terza divisione, periodo in cui l’affluenza media allo stadio oscillava intorno ai tredicimila spettatori, mentre il resto delle squadre si fermava a poche centinaia. Ciononostante, questo poderoso congegno di sinistra – che nel tempo è stato capace di stipulare accordi con una casa automobilistica per lanciare un modello esclusivo con il nome del club o con una multinazionale dell’abbigliamento sportivo per produrre una linea di scarpette con i suoi colori e il suo stemma – impallidisce davanti all’autenticità di Volker Ippig e alla rivoluzione che guidò negli anni ottanta. Ippig fu il portiere della squadra dal 1981 al 1991, con alcune pause. Nel 1983 abbandonò il calcio per lavorare un anno in un asilo per bambini disabili, e costruì una capanna nel suo paese di seimila abitanti, Lensahn, dove viveva nei fine settimana, mentre durante i giorni feriali dormiva nella comune di Haffenstrasse, a St Pauli. «Ero stanco di giocare a calcio e basta» spiega in un’intervista concessa nel 2005 per un libro sulla storia dei tifosi del club. «Quando entravo nella mia capanna, accendevo un falò, che per me rappresentava la prima tv esistente. Lì potevo scordarmi di tutto» racconta. In un’altra delle sue pause lasciò il paese in cerca dell’utopia: si arruolò in una brigata di lavoro in Nicaragua. A ventinove anni, nel 1991, un grave infortunio mise fine alla sua carriera. Aveva vestito cento volte la maglia della sua unica squadra professionistica. A quel punto Ippig si allontanò dal resto del mondo. Visse come un eremita, studiò il potere delle piante, si lasciò crescere la barba e i capelli, e perse il contatto con l’umanità. «Ho passato molto tempo meditando, ma mi sono isolato troppo e sono arrivato a smarrire la concezione del mondo» dichiarava. Ma poi decise di tornare. Nel 1999 era di nuovo al St Pauli come allenatore dei portieri della prima squadra e tecnico delle giovanili. Alla conferenza stampa di presentazione mise in chiaro di avere l’intenzione di restituire al club la sua vecchia natura perduta. «Il mio cuore batte a sinistra. I miei valori politici e sociali non sono cambiati e continuano a essere gli stessi che animano il St Pauli» disse. Però, tra incidenti e continui alti e bassi, questa nuova tappa durò appena cinque anni, e Ippig arrivò anche a scontrarsi con la tifoseria per aver sostenuto pubblicamente il portiere Carlster Wehlmann nel suo desiderio di firmare per gli arcinemici dell’Amburgo. «Persino le vacche cambiano pascolo. Perché qualcuno del St Pauli non può giocare con l’Amburgo? Anch’io ero così testardo, ma questi miti dovrebbero dissolversi come bolle di sapone» dichiarò. I tifosi non gliel’hanno mai perdonato. Dopo essersene andato dal suo club per sempre, ha messo in piedi una scuola di portieri itinerante con dei metodi di allenamento particolari, che includono originali tecniche di preparazione fisica e trattamenti omeopatici. È ancora fedele agli insegnamenti ascetici di Carlos Castaneda: «Quando lo leggi, ti senti leggero come una piuma». E continua a essere un personaggio scomodo per il mondo professionistico: l’altra sua esperienza da allenatore dei portieri al Wolfsburg, nel 2007, è stata curiosa. Fu chiamato dal cervellotico Felix Magath in persona, che allora sedeva sulla panchina del club della Bassa Sassonia. Ma visto che rifiutò di lavorare più di tre giorni alla settimana, e che il nuovo portiere incoraggiato dal club aveva deciso di portare con sé il proprio preparatore personale, nel gennaio del 2008 fu licenziato. In seguito allenò la squadra dilettantistica con cui aveva cominciato, il tsv Lensahn, e ottenne una promozione nella terza divisione tedesca. Vincere la partita decisiva fu per Ippig «il momento più felice della mia vita». Le cose tra Volker Ippig e il calcio professionistico, non riescono a funzionare. È logico. A tal punto che attualmente ha ancora la sua scuola di portieri, ma per aiutare la sua famiglia (una compagna e due figli) lavora al porto di Amburgo, come un operaio qualsiasi. Inoltre, nel 2006 si concesse anche un breve svago artistico, recitando una piccola parte in fc Venus, una commedia che parla dei componenti di una squadra di calcio che giocano una partita contro le loro mogli. Un tempo il St Pauli è stato un laboratorio in cui il calcio ha potuto ridefinire i suoi rapporti e le sue regole. È stato uno degli ultimi tentativi utopistici di cambiare il mondo del professionismo. Non c’è riuscito. Oggi rimane un club di sinistra con una tifoseria di sinistra, che però non è mai arrivato a essere quello che sognava il suo portiere capellone degli anni ottanta. «Tutto ciò che so lo devo al calcio» dice, molto camusianamente, Volker Ippig. «Non sono mai stato l’ideologo che mi facevano sembrare, sono più un libero pensatore» aggiunge. E, con l’eterno disincanto di ogni utopista, di colui che non arriva mai a Itaca, definisce così il St Pauli di oggi: «Millerntorn è stato un laboratorio all’aria aperta per il calcio tedesco, e lo stretto rapporto venutosi a formare tra i giocatori, gli allenatori e i tifosi era già di per sé un fantastico successo. In quel momento era tutto reale. Oggi il St Pauli è qualcosa di orchestrato, artificiale. Rimane solo il mito. È tutto un mare di nebbia». Ippig ha ragione. Il St Pauli non è il club che lui e un gruppo di punk anarchici provarono a costruire. Il calcio non sarà mai quello sognato da qualche utopista, soprattutto all’inizio degli anni ottanta. Gli affari hanno travolto tutto. E nel calcio professionistico essere un guerriero, come insegna Carlos Castaneda, serve a poco. Al massimo per camminare da solo al di là della linea tracciata dal business. Ma Volker Ippig continua ad andare dritto per la sua strada.


Testo pubblicato dall'amico Gra sulla pagina Facebook  "FUSSBALL BITTE".
Grazie sempre Gra unica & autentica "Enciclopedia Umana della Bundesliga".



domenica 11 settembre 2016

Peter Bonetti e quel maledetto giorno a Léon


L'inglese Peter Bonetti ha avuto una carriera straordinaria (più di 700 presenze con la maglia del Chelsea) che però fu oscurata da una giornataccia in un pomeriggio di metà giugno dell'anno 1970.
Soprannominato "The Cat" per l'agilità e la rapidità dei suoi interventi Bonetti fu Campione del Mondo nell'edizione 1966 dei Mondiali di Calcio.
Tuttavia, in quell'edizione del Mondiale di Calcio, Bonetti non giocò neppure un minuto. 
Titolare indiscusso della maglia numero 1 dei Leoni di Inghilterra era infatti il Leggendario Gordon Banks.
Lo stesso Banks, autore di straordinarie parate, traghettò i suoi fino alla semifinale del mondiale in Mexico nel 1970.
Un'infortunio lo costrinse però a dare forfait proprio nella gara di semifinale che vedeva l'Inghilterra opposta alla Germania Ovest.
Così, il pomeriggio del 14 giugno 1970 a Léon,  tra i pali della porta della nazionale inglese, si trovò Peter Bonetti. Una straordinaria oppurtunità che gli avrebbe permesso di guadagnarsi un meritato momento di notorietà.
Invece le cose andarono diversamente.
Dopo il vantaggio inglese con Mulery al 31° minuto del primo tempo e il raddoppio di Peters al 49° minuto della ripresa per gli inglesi la pratica sembrava chiusa. La rete del 2-0 sembrò mettere la parola  fine alla partita.
Tuttavia  al 68° minuto un tiro in diagonale di Franz Beckenbauer, apparentemente senza grosse pretese, finì col passare sotto la pancia di un Peter Bonetti che, goffamente aveva tentato di respingere il tiro.
Cosa non funzionò nell'intervento di Bonetti in quel momento ancora oggi non è chiaro. Quello che, invece, apparve subito lampante fu il fatto che se ci fosse stato il titolare Gordon Banks quel tiro senza pretese del Kaiser, beh, lui sicuramente l'avrebbe parato. 
Quel gol, di fatto, cambiò l'inerzia di una partita che sembrava segnata. 
I tedeschi presero coraggio e, all 82° minuto, segnarono la rete del pareggio allorquando  Uwe Seeler  raccolse un cross di Karl-Heinz Schnellinger e con una parabola beffarda superò Bonetti.
I tempi regolamentari si chiusero sul risultato di 2-2. 
Nel primo dei due tempi supplementari Beckenbauer  tento di sorprendere ancora Bonetti con un tiro dalla distanza ma, questa volta, il portiere inglese tenne fede al suo soprannome e, come un gatto, volò a deviare il tiro sopra la traversa.
La disfatta inglese si completò al minuto  108  quando servito a centro area solo davanti a Bonetti il bomber Gerd Muller segnò la rete del 3-2. A nulla servirono i vani tentativi degli inglesi di raggoiungere il pareggio. La gara terminò con la vittoria della Germania Ovest che estromise dalla corsa i campioni del mondo in carica.
Nella luminosa carriera di Bonetti tra i pali del Chelsea (vinse tra le altre una coppa dell Coppe nel 1971) quella settima e ultima presenza tra i pali della nazionale inglese restò impressa come una macchia indelebile.
Il 14 giugno 1970 a Léon  "The Cat" Bonetti visse il suo giorno peggiore.




Léon 14-06-1970  Germania Ovest - Inghilterra  3 -  2









domenica 28 agosto 2016

La fine dell' A.C. MILAN perso nell'orizzonte di un futuro passato.


"IO SONO IL FUTURO": questo era (in sintesi)  il motto con cui, nei primi mesi del 1986,  Silvio Berlusconi si presentava come salvatore del glorioso A.C. MILAN.
La storia di quel passaggio di consegne tra la gestione di Giussi Farina e quella del Berlusca io la seguivo, passo a passo, dalle pagine del leggendario settimanale GUERIN SPORTIVO.
Direttore del Guerino era  Italo Cucci che già nel gennaio 1986 partiva con una copertina così:



Era metà gennaio e già veniva prospettato il futuro della società rossonera. 
L'arrivo di Silvio Berlusconi "C'est Bon!".
Mai titolo fu più profetico. D'altronde Italo Cucci era ed è uno dei Veri Maestri di un certo modo di fare il Giornalista.
La copertina del Guerin n. 28/1986  (metà luglio) raccontava già di come sarebbe stata la storia di lì a venire. Berlusconi e Agnelli come  Rockerduck e Paperon De Paperoni erano l'emblema dell'Italia che nel Calcio (ma non solo in quello) era quella del BENGODI ! Anni ricchi. In tutti i sensi. 
E se il calcio era il termometro del paese, diciamo che il paese stava bene. Quanto bene si stava lo si riesce forse a capire bene solo oggi, che il BENGODI è finito.
Il ciclo della storia del A.C. MILAN che prese avvio il 18 luglio 1986 (data della storica prima presentazione della squadra dell'era Berlusconi) è qualcosa che resterà per sempre nella storia del Calcio Mondiale.
Quel giorno lì cambiò davvero la storia del Calcio.
Niente di tutto ciò si era mai visto prima. Tutti  ne avrebbero poi copiato il "Sistema". Ma "UNO" è quello che fa la Storia e, semmai, gli altri vi si possono - più o meno bene - accodare.
Quella storia lì è appena stata ripresa dal Magazine della Gazzetta dello Sport - SportWeek che ha dedicato al fatto la copertina del numero  dello scorso 16 luglio.


L'Era Berlusconi, quella del Milan Stellare,  quella del geniale Arrigo Sacchi che cambiò il gioco del Calcio di lì a venire... tutto questo era rinchiuso in quella frase "IO SONO IL FUTURO".
Ed io, allora ragazzetto, che dalle pagine del Guerino seguivo tutta l'Epopea, passo a passo,  vedevo divertito il Mio MILAN vincere in ogni dove "imponendo" il proprio Calcio  come un nuovo "Dogma Assoluto".  Mi divertivo un sacco.
Ma quello di cui allora non mi accorgevo era il fatto che, quell'orizzonte tracciato dal motto "IO SONO IL FUTURO"  lo stavo vivendo  in uno splendido ed irripetibile presente. Ed il presente oggi e il passato di domani,
E così il declino è arrivato con la crisi che ha colpito mezzo mondo occidentale. 
Declino dapprincipio solo Economico che ha ridotto male l'Italia del BENGODI.
E nel Calcio, lo specchio del paese, i Campioni iniziavano a transitare sempre più di rado. Meno soldi, meno Presidenti disposti a spendere soldi  ("Padroni del Vapore" come li definiva il Guerin Sportivo).
La fine del "Mio" A.C. MILAN è arrivata esattamente 30 anni dopo. Berlusconi, ormai avanti con l'età, sempre più alle prese con le volontà dei figli-eredi, con sempre meno possibilità di investire nella sua "creatura" ha, infine, ceduto la società. 
"IO SONO IL FUTURO" è diventato il motto di un ricordo di un futuro ormai già passato.
Sempre il GUERIN SPORTIVO, ma quello di oggi Agosto 2016, nelle pagine sempre illuminate di Roberto Beccantini spiega quale sarà il futuro a venire: in buona sostanza il pallino è passato nelle mani di chi ha ancora soldi che avanzano da poter  spendere appresso ad un gioco. 
Così dai ricchi presidenti italiani che spesso spendevano a vanvera  (cit. I PADRONI DEL VAPORE) ora siamo passato ai ricchi presidenti cinesi che di calcio non capiscono forse nulla ma che ci tengono al Marchio delle nostre squadre che è più questione di merchandising e marketing - appunto- che di calcio. Per il mitico Beck loro sono il nuovo del calcio che avanza: sono i "LICCHI SCEMI".
In mezzo a tutto ciò il mio A.C. MILAN, per come lo intendevo io, non esiste più. 
E' una scatola vuota con un bel  Marchio Sopra.
Attendo, prima della fine,  di poter rivedere un giorno la scatola finire nuovamente tra le  mani "italiche" di qualche Nuovo Berlusconi.
Sarebbe una bella Cosa. 
Sarebbe magari il segno che il Paese s'è ripreso e che la moneta ricomincia a circolare.
Sarebbe il futuro sognato in un presente ... desolato.









domenica 17 luglio 2016

Da Fischer a Ferro, da Fedel a Christou: quando il portiere (di nome) è una certezza.

(Francisco Buyo)


Nelle stagioni 1988/1989 e 1989/1990  tra i pali delle formazioni di mezzo mondo circolavano soggetti assolutamente particolari.
Spesso non si trattava di fenomeni e tanti di questi erano anche relegati a seconde o terze scelte.
Ma la loro particolarità stava tutta in quei cognomi che, una volta letti e mandati a memoria, formavano una lunga e infinita filastrocca: un gruppo unico.
C'erano le certezze, quelli cioè su cui potevi contare ad occhi chiusi:  come il preciso FISCHER Harald estremo difensore dell'Austria Vienna, o quello che poteva giocare su tutti i terreni come DUNLOP Geroge del Linfield (Irlanda del Nord), passando poi per l'inossidabile uruguagio Oscar Julio Gandara FERRO del Penarol di Montevideo o ancora il roccioso Krzystown PIETROWSKY in forza ai polacchi del GSK Katowice.
Poi vi erano i mistici: partendo dal bulgaro Rumen APOSTOLOV passando per lo svedese Jonnie FEDEL portiere del Malmo F.F., non dimenticando il portoghese Antonio Pereira JESUS portiere del Vitoria Guimaraes. A capitanare lo squadrone dei mistici chi, se non il cipriota portiere dell'Omonia Nicosia al secolo Christos CHRISTOU
Non mancavano i soggetti poco raccomandabili che, riuniti insieme,  costituivano un pericolo per l'intera comunità come l'irlandese Tim DALTON o il tedesco Oskar KOSCHE portiere della Dinamo Berlino o ancora come l'argentino  Jorge BATTAGLIA  estremo difensore dell'Estudiantes.
(Oskar Kosche)

Per fortuna che, a metter le cose a posto, dal Portogallo arrivava puntuale  Fernando JUSTINO numero uno Belenenses.
Immancabile quello che alzava il tasso alcolico della compagnia: il francese Bruno MARTINI dell'Auxerre.
(Bruno Martini)

Così come immancabile era quel figlioccio che avrebbero voluto avere tutte le mamme ma anche quello che, "bello" viaggiava per tutte le spiagge estive: il finlandese  Vesa KOKKO portiere del Kuusysi Lathi.
Vi era anche il ministro delle finanze del gruppo: il greco estremo difensore dell'AEK Spiras ECONOMOPOULOS.
E ancora c'era chi tentava di ipnotizzare gli attaccanti avversari con stratagemmi di bassa lega come il greco Georges MAGOS che, infatti, faceva solo il secondo portiere al Panathinaikos.
Qualcuno aveva seri problemi di vista e spesso non vedeva nulla come lo spagnolo del Real Madrid, il celebre Francisco BUYO.
Qualcun'altro era altissimo, nel fisico ma cortissimo nel nome che pure ne indicava la stazza: è il caso del rumeno estremo difensore della Steaua Bucarest Silviu LUNG.
Altri non venivano mai presi in considerazione dagli allenatori semplicemente perché,  questi ultimi, non ne ricordavano il nome come nel caso del greco Spiros IKONOMOPOULOS per sempre disperso tra le riserve dell'AEK di Atene.
Ma la truppa più numerosa in assoluto ... beh ... è quella del gruppo della fattoria.
Quelli avevano mille e più rappresentanti: celeberrimi furono l'argentino Hugo Orlando GATTI del Boca Jrs, ma anche noi in Italia, a felini si stava bene, con Giuseppe GATTA a difesa dei pali del Monza e che dire del lungo portiere della Roma Giovanni CERVONE, senza scordarci che tra i pali dell'Empoli volava  Giulio DRAGO.
(Giuseppe Gatta)

Un po' meno nobili furono l'argentino Nestor Josè MERLO secondo portiere sempre al Boca Jrs. e il turco che, nel Fenerbahce stagione 1989/1990 faceva da secondo al leggendario "Toni" Schumacher, ossia Barkad CAN, uno che, nell'evidenza dei fatti non godeva certo della stima del suo allenatore.
Infine va ricordato che  a narrare le gesta di coloro precedentemente citati vi era un classico eroe nello jugoslavo Fahrudin OMEROVIC all'epoca estremo del Partizan Belgrado.