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sabato 29 ottobre 2016

Le lacrime di Arzù


di Roberto Rizzetto

In occasione dei mondiali del 1982 la Fifa allargò a 24 il numero delle squadre finaliste , riservando ben sei posti ad Asia,  Africa, Oceania e Centro America .
Le nazionali che staccarono il pass per “Espana 82” furono Kuwait , Nuova Zelanda , Camerun , Algeria , El Salvador ed Honduras .
Quest'ultima compagine in particolare aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie prima di accedere , per la prima volta nella sua storia , alla fase finale dei mondiali , superando ben due gironi di qualificazione . Eliminò dapprima Guatemala , Costarica e Panama e successivamente Messico , Canada ed Haiti .
Il team centroamericano venne inserito nel gruppo G, insieme ad Irlanda del Nord, Jugoslavia ed ai padroni di casa spagnoli.
Il commissario tecnico honduregno, tale Josè de la Paz Herrera, presentando la propria nazionale ai giornalisti disse: “Siamo qui per diventare la squadra simpatia !”. E l'Honduras si dimostrò davvero in grado di “catturare” il gradimento del pubblico. Era una delle poche nazionali a non alloggiare in un albergo di lusso. Il governo honduregno aveva chiesto ed ottenuto una linea telefonica diretta tra il paese e l'hotel in cui i giocatori, tra un rito scaramantico e l'altro (tra cui quello della benedizione delle bevande) preparavano il loro debutto.
Ciò avvenne il 16.6.82, a Valencia, davanti a 50.000 spettatori, proprio contro i padroni di casa spagnoli. Entrando in campo i calciatori centroamericani offrirono garofani al pubblico, poi sfoderarono una prestazione gagliarda tanto che le “furie rosse” riuscirono soltanto nella ripresa  a riequilibrare ( su rigore ) le sorti dell'incontro.
Con il medesimo risultato di 1-1 terminò anche la gara successiva, che si disputò cinque giorni dopo a Saragozza, contro l'Irlanda del Nord .
Nelle prime due partite l'Honduras dimostrò di possedere tecnica e qualità , mettendo in vetrina giocatori di sicuro rendimento quali l'attaccante Roberto Figueroa, il centrocampista Gilberto Yearwood ( che venne successivamente eletto calciatore honduregno del secolo ) e l'estremo difensore Julio Cesar  Arzù. Quest'ultimo era un portiere ventiquattrenne, poco dotato fisicamente  ( alto soltanto 178 centimetri ) ma con doti di agilità e reattività fuori dal comune. Indossava la maglia numero 21.
Anche nell'incontro decisivo per la qualificazione al turno successivo che si disputò sempre a Saragozza giovedì 24.6.82 Arzù sfoderò interventi di assoluto rilievo, ma alla squadra centroamericana mancò, oltre ad un po’ di fortuna,  anche un pizzico di esperienza e di cinismo. Le numerose occasioni da goal create non furono infatti concretizzate e, a due minuti dal triplice fischio finale, la Jugoslavia passò in vantaggio su un calcio di rigore quantomeno dubbio. All'Honduras sarebbe bastato un pareggio per accedere alla seconda fase a gironi …
Al termine dell'incontro Arzù rimase a lungo disteso sul terreno di gioco dello stadio “La Romareda” piangendo a dirotto .
La vetrina mondiale gli permise tuttavia di ottenere un ingaggio per la stagione successiva proprio in Spagna, nel Racing Santander. 
E quando qualche mese dopo venne organizzata, in favore dell'Unicef, a New York la sfida Europa – Resto del Mondo a difendere la porta della selezione mondiale furono convocati il camerunense Thomas N'Kono e proprio Josè Cesar Arzù. 
Quest'ultimo successivamente divenne il preparatore dei portieri della nazionale honduregna, prima di tornare a calcare i campi di gioco, nella “Lega dei veterani”  nel ruolo di … centravanti !
Già, perché quando giocava portiere c'erano partite in cui gli attaccanti non tiravano mai , e lui si annoiava . In attacco invece trovava sempre qualcosa da fare ...

La leggenda del "Sant'Angelo Bernabeu"


di  Roberto  Rizzetto 


Cabiate non è soltanto la “piccola Parigi” della Brianza, è anche il paese in cui vive e lavora Vincenzo Visentin , uno dei migliori portieri in assoluto . Almeno per quello che mi riguarda …
I protagonisti della storia che sto per raccontare sembrano usciti dal testo della canzone “Gli anni” degli 883. Erano infatti gli anni d'oro del grande Real , capace di vincere due Coppe Uefa consecutive grazie ad incredibili rimonte a Madrid che ribaltavano le pesanti sconfitte rimediate durante gli incontri d'andata. Anni dopo , Jorge Valdano , il bomber argentino che insieme ad Hugo Sanchez ed Emilio “El Buitre” Butragueno formava il fenomenale trio d'attacco madridista di quel periodo rivelò che a bloccare psicologicamente le squadre avversarie era  quello che lui stesso definì “miedo escenido” , ovvero la “ paura del palcoscenico” che attanagliava i giocatori avversari quando entravano sul terreno di gioco dello stadio “Santiago Bernabeu” .
E Vincenzo , il portiere di cui voglio parlarvi , ne sa qualcosa .
Infatti lui , interista convinto , aveva visto per due anni di fila i propri beniamini uscire mestamente da quella competizione calcistica proprio per mano del Real . In entrambi i casi le vittorie a San Siro dei nerazzurri per 2-0 e per 3-1 furono poi vanificate nella bolgia del “Bernabeu” , rispettivamente per 3-0 e   5-1.
Erano gli anni delle immense compagnie. E quella di cui io e Vincenzo facevamo parte contava quasi una ventina di elementi , anche se gli avvicendamenti erano all'ordine del giorno .
Erano gli anni del motorino , in genere il Ciao , ( quasi ) sempre in due . A dispetto della pioggia , del freddo e dei vigili urbani …
Per intenderci sto parlando della metà dei famigerati anni ottanta .
A dire il vero , Vincenzo , per onor di cronaca , non era nemmeno un portiere .
In realtà lui era un difensore . Mancino , forse un po' ruvido , comunque poco propenso all'impostazione di gioco . Più portato a fermare l'attaccante avversario , con le buone o , se necessario , anche con le cattive .
Dopo tanti campionati nell'Osa ( Oratorio Sant'Angelo ) Lentate , qualche stagione a Rovellasca ed una fugace apparizione nelle giovanili del Como , sempre schierato nella parte sinistra della difesa guidata al centro dal suo compagno di mille battaglie Gianni Cappelli , aveva appeso le classiche scarpette al chiodo .
Già , perché  lui , anche senza andare tanto lontano , la paura del palcoscenico l'avvertiva davvero ...
E chi ha calcato i campi di calcio , anche quei piccoli campetti semideserti degli oratori , sa quale atmosfera carica di tensione si respira negli spogliatoi negli attimi che precedono ogni gara.
E , per chi vive le emozioni in maniera  intensa , questa tensione alla lunga può diventare logorante ...
In ogni caso , quelle scarpette appese al chiodo potevano sempre essere rispolverate per le partitelle tra gli amici della nostra compagnia che disputavamo, generalmente alla domenica sera, nel campetto dell'oratorio Sant'Angelo di Lentate sul Seveso .
Abbastanza frequenti erano anche le sfide che ci vedevano impegnati contro squadre avversarie e che si disputavano immancabilmente in questo campo .
E sarà che su quel terreno di gioco ci eravamo praticamente cresciuti , sarà che qualche elemento coi piedi buoni , nella nostra compagine , ce l'avevamo pure , fatto sta che la nostra squadra , al momento, risultava ancora  imbattuta. 
Fu così che ribattezzammo “Sant'Angelo Bernabeu” quello che era divenuto il nostro “fortino inespugnabile”.
In realtà era un campo di terra e ghiaia . D'estate ogni passaggio rasoterra provocava una scia di polvere che seguiva la palla ed ogni caduta causava inevitabili abrasioni . Ed io ne so qualcosa visto che di quella squadra ne ero il portiere titolare . Non tanto per meriti sportivi ma semplicemente perché , del gruppo di cui sto parlando , ero l'unico portiere .
Almeno fino a quando non arrivò Vincenzo ad insidiarmi il posto .
Già , perché lui , oltre alla fede nerazzurra nutriva un “amore” viscerale per l'estremo difensore nerazzurro Walter Zenga , tanto da volersi cimentare tra i pali per emularne le gesta .
Così diventammo antagonisti nelle “partitelle in famiglia” mentre nelle sfide contro le squadre avversarie, da amici fraterni quali eravamo ( e siamo da sempre ) giocavamo un tempo a testa . E , dato che a Vincenzo mancava qualche diottria , io giocavo la mia “mezza partita” tra i pali della porta sul lato dell'ingresso principale dell'oratorio , quello di Via De Amicis . Lui invece difendeva la porta sul lato opposto ( che era illuminato meglio ) , quello alle cui spalle c'era la Fabbrica Mauri .
Un giorno di una trentina di anni fa a lanciarci il cosiddetto guanto di sfida fu , per ironia della sorte , Gianni Cappelli . Gianni , come già detto in precedenza , era un difensore davvero “tosto” che aveva disputato parecchie partite a fianco di Vincenzo oltre ed aver “bazzicato” fino a poco tempo prima il nostro gruppo di amici .
La squadra avversaria poteva poi contare su elementi di assoluto rilievo .
Gianluca Ripamonti era un portiere esperto ed affidabile . Aurelio Monzani detto “Terry” un giocatore in grado di fare la differenza e l'attaccante Nicola Papa era riconosciuto da tutti come il calciatore più talentuoso della nostra ( mia e di Vincenzo ) leva ; il 1968 .
Ai tempi non esistevano le scommesse sportive , al massimo si giocava al Totocalcio . Ma se ci fossero stati i bookmakers una nostra eventuale vittoria sarebbe stata quotata davvero bene . In ogni caso era palese che la nostra imbattibilità era in serio pericolo .
Il giorno della partita il sorteggio fece si che fu Vincenzo a disputare il primo tempo . Lui , tra i pali , aveva evidenti limiti tecnici ma sapeva sempre mettere il cuore oltre l'ostacolo . Fu anche grazie a lui se , ALLA FINE DEL PRIMO TEMPO, nonostante l'evidente superiorità tecnica dei nostri avversari , la nostra squadra era ancora in partita, anche se sotto di due goal .
Nella ripresa, dopo l'assegnazione di un rigore alquanto dubbio trasformato da Nicola Papa , avvenne l'impensabile .
L'orgoglio , misto ad una lucida follia , ci spinse a ribaltare il risultato ed a vincere la partita grazie ad un goal nel finale siglato da Michele Delle Foglie detto “Kamy” , ( diminuitivo di Kamykaze ) , una “meteora” venuta per un breve periodo a mettere scompiglio all'interno della nostra compagnia ed a permetterci di mantenere inviolata l'imbattibilità al “Sant'Angelo Bernabeu” .

Vincenzo appese i guantoni al chiodo quando Walter Zenga terminò la propria carriera , mentre le scarpette da calcio le abbandonò più tardi , dopo aver reso la vita dura agli attaccanti incontrati nei tornei che successivamente la nostra squadra disputò , senza mai troppa fortuna a dire il vero . Ma questa è un'altra storia …
Probabilmente , in cuor suo , sperava che suo figlio ripetesse le sua gesta sportive . Ma Luca evidentemente la “paura del palcoscenico” non la sente , visto che calca con brillante personalità i palcoscenici dei teatri della zona portando in scena meravigliosi musical .
Vi chiederete che fine hanno fatto gli altri protagonisti di questa storia .
Gianni Cappelli , che vedo ancora saltuariamente , è rimasto il pazzoide che era ai tempi , come se per lui il tempo non fosse passato .
Michele Delle Foglie detto “Kamy” ha vissuto la vita tutta d'un fiato , bruciandosi in fretta in un fuoco indimenticabile . Di lui mi sono rimaste tre audiocassette da lui stesso registrate in presa diretta , chitarra e voce , ed un bel ricordo .
Un Nicola Papa visibilmente imbolsito si era rimesso in gioco qualche anno fa . Insieme abbiamo disputato un campionato over 35 nel GSO Camnago .
Peccato che ci siamo imbattuti in squadre avversarie che schieravano calciatori senza un filo di pancia , ancora integri fisicamente e dalla tecnica sopraffina , visto che qualcuno di loro aveva addirittura militato in serie A . Non abbiamo rimediato una bella figura …
Il “Sant'Angelo Bernabeu” adesso è un campo in sintetico nel quale giocano e si allenano diverse squadre dell'OSA Lentate .
Il presidente di questa società è l'ex portiere Gianluca Ripamonti mentre Aurelio “Terry” Monzani ne è stato allenatore ed ora è uno dei principali dirigenti . Ed anch'io , a tutt'oggi , sono un'atleta tesserato per questa società .
Disputiamo il campionato “open a 7” nel distretto di Milano militando in serie C .
Tra acciacchi vari e ricorrendo anche a qualche seduta di fisioterapia mi confronto con portieri che hanno almeno vent'anni meno di me e che potrebbero essere miei figli .
E' impensabile per me competere con loro per un posto da titolare .
Però mi piace fare parte di questo gruppo . Così cerco di farmi trovare pronto nelle poche situazioni in cui vengo chiamato in causa .
In quello che una volta avevamo ribattezzato “Sant'Angelo Bernabeu” ci alleniamo una volta alla settimana in vista della partita di campionato del sabato .
Niente di particolarmente impegnativo . Un'oretta scarsa di esercizi , poi la consueta partitella .
E mentre il mister consegna le pettorine scegliendo di fatto le due squadre , io prendo il mio posto tra i pali della porta sul lato dell'ingresso principale dell'oratorio , quello di Via De Amicis . La porta sul lato opposto , quello illuminato meglio alle cui spalle c'è ancora la Fabbrica Mauri ,  la lascio a  Vincenzo Visentin , uno dei migliori portieri in assoluto . Almeno per quello che  mi riguarda …












martedì 25 ottobre 2016

Breve storia di Volker Ippig icona del St. Pauli





Il giovane Volker Ippig divorava la bibliografia di Carlos Castaneda. Gli anni ottanta erano appena iniziati e il ragazzo, un gigante di un metro e ottantasei centimetri, giocava in porta con il tsv Lenshan, la squadra della sua città, cento chilometri a nord di Amburgo. Leggeva di guerrieri e battaglie, e della necessità di seguire il cammino indicato dal cuore; leggeva libri che lo invitavano a sperimentare sostanze sconosciute e a lavorare duramente. Nel frattempo andò a giocare con il St Pauli, il club povero di Amburgo, che lo ingaggiò per le giovanili quando aveva diciott’anni, anche se l’anno successivo era già il secondo portiere della prima squadra, in terza divisione. E lì, tutto acquistò un senso. Volker Ippig, con la sua criniera bionda e scapigliata, cominciò a impregnarsi della cultura del movimento che stava inondando di vita questo quartiere portuale e operaio di Amburgo: gli squatter. Viveva con loro e pensava come loro. Il quartiere era e continua a essere il quartiere rosso di Amburgo. All’inizio degli anni ottanta vi si mescolavano prostitute, lavoratori, punk, attivisti di sinistra, tossici. E poi una squadra di calcio con la maglia marrone, il St Pauli, si trasformò nel centro di tutto. Se un tempo i tifosi che occupavano gli spalti erano poche centinaia, ora erano diventati una piccola moltitudine. Allo stadio si affollavano creste, giacche di cuoio e bandiere di Che Guevara. Il quartiere era sempre più multicolore, e il club pure. Ogni cosa veniva messa in dubbio. La bandiera pirata divenne il suo emblema, e l’attenzione internazionale verso il fenomeno cominciò a crescere. Oggi il St Pauli continua a essere un simbolo mondiale della sinistra calcistica. Nessuno meglio di Volker Ippig, il portiere che andava all’allenamento in bicicletta o in autobus, simboleggiava tutto ciò che il St Pauli rappresentava. Scendeva in campo con il pugno alzato e i tifosi lo adoravano. La sua marcata coscienza sociale lo trasformò in un modello per tutto il quartiere. Non rinunciò mai a essere quello che era, e nessuno glielo chiese. Al contrario: diventò il simbolo della più grande rivoluzione mai vista in uno stadio di calcio. Il tizio che indossava i guanti era il guardiano della porta e della rivolta. Fino ad allora il St Pauli non aveva mai avuto una tradizione di sinistra, e negli anni novanta la politicizzazione della tifoseria cominciò a scemare un po’ quando alcuni gruppi organizzati si mobilitarono in difesa di un cantante punk che era stato accusato di violenza sessuale. I casi di presidenti della società dichiaratamente progressisti sono pochi: si è sempre trattato di un fenomeno esclusivo dei tifosi. Ma nel 2002 al vertice del club arrivò Corny Littman, che ci sarebbe rimasto fino al 2010. Littman, regista teatrale omosessuale e uomo di cultura, si impegnò affinché il club riconquistasse il suo profilo più politico. Un profilo che, a dire il vero, non era stato del tutto snaturato dallo scorrere del tempo, soprattutto grazie alla maggioranza dei tifosi. Questi nel 1999 furono capaci di costringere la dirigenza a cambiare il nome dello stadio, che dal 1970 si chiamava Wilhelm Koch (come l’ex presidente del club di cui si seppe che era stato membro del Partito nazista e coinvolto nello spoglio di beni degli ebrei). Nel 2009 obbligarono la società a ritirare dallo stadio la pubblicità di una bevanda energetica chiamata Kalte Muschi (in italiano «figa fredda»). Il quartiere ha ventisettemila abitanti, e la capienza dello stadio Millerntorn è di ventitremila posti. Esistono cinquecento St Pauli club in tutto il mondo, e solo in Germania la sua base di simpatizzanti si stima intorno agli undici milioni di persone. È un fenomeno globale e un simbolo della sinistra che include nei suoi principi ufficiali «il rispetto di tutti i rapporti umani» e l’obbligo del club di impegnarsi politicamente e socialmente sul territorio, idee che furono dibattute e votate in un congresso del 2009. Il suo stadio si dichiara «zona libera dal razzismo e dall’omofobia», e può vantare la più grande percentuale di abbonati del calcio tedesco. Il St Pauli ha giocato in Bundesliga, ma anche in terza divisione, periodo in cui l’affluenza media allo stadio oscillava intorno ai tredicimila spettatori, mentre il resto delle squadre si fermava a poche centinaia. Ciononostante, questo poderoso congegno di sinistra – che nel tempo è stato capace di stipulare accordi con una casa automobilistica per lanciare un modello esclusivo con il nome del club o con una multinazionale dell’abbigliamento sportivo per produrre una linea di scarpette con i suoi colori e il suo stemma – impallidisce davanti all’autenticità di Volker Ippig e alla rivoluzione che guidò negli anni ottanta. Ippig fu il portiere della squadra dal 1981 al 1991, con alcune pause. Nel 1983 abbandonò il calcio per lavorare un anno in un asilo per bambini disabili, e costruì una capanna nel suo paese di seimila abitanti, Lensahn, dove viveva nei fine settimana, mentre durante i giorni feriali dormiva nella comune di Haffenstrasse, a St Pauli. «Ero stanco di giocare a calcio e basta» spiega in un’intervista concessa nel 2005 per un libro sulla storia dei tifosi del club. «Quando entravo nella mia capanna, accendevo un falò, che per me rappresentava la prima tv esistente. Lì potevo scordarmi di tutto» racconta. In un’altra delle sue pause lasciò il paese in cerca dell’utopia: si arruolò in una brigata di lavoro in Nicaragua. A ventinove anni, nel 1991, un grave infortunio mise fine alla sua carriera. Aveva vestito cento volte la maglia della sua unica squadra professionistica. A quel punto Ippig si allontanò dal resto del mondo. Visse come un eremita, studiò il potere delle piante, si lasciò crescere la barba e i capelli, e perse il contatto con l’umanità. «Ho passato molto tempo meditando, ma mi sono isolato troppo e sono arrivato a smarrire la concezione del mondo» dichiarava. Ma poi decise di tornare. Nel 1999 era di nuovo al St Pauli come allenatore dei portieri della prima squadra e tecnico delle giovanili. Alla conferenza stampa di presentazione mise in chiaro di avere l’intenzione di restituire al club la sua vecchia natura perduta. «Il mio cuore batte a sinistra. I miei valori politici e sociali non sono cambiati e continuano a essere gli stessi che animano il St Pauli» disse. Però, tra incidenti e continui alti e bassi, questa nuova tappa durò appena cinque anni, e Ippig arrivò anche a scontrarsi con la tifoseria per aver sostenuto pubblicamente il portiere Carlster Wehlmann nel suo desiderio di firmare per gli arcinemici dell’Amburgo. «Persino le vacche cambiano pascolo. Perché qualcuno del St Pauli non può giocare con l’Amburgo? Anch’io ero così testardo, ma questi miti dovrebbero dissolversi come bolle di sapone» dichiarò. I tifosi non gliel’hanno mai perdonato. Dopo essersene andato dal suo club per sempre, ha messo in piedi una scuola di portieri itinerante con dei metodi di allenamento particolari, che includono originali tecniche di preparazione fisica e trattamenti omeopatici. È ancora fedele agli insegnamenti ascetici di Carlos Castaneda: «Quando lo leggi, ti senti leggero come una piuma». E continua a essere un personaggio scomodo per il mondo professionistico: l’altra sua esperienza da allenatore dei portieri al Wolfsburg, nel 2007, è stata curiosa. Fu chiamato dal cervellotico Felix Magath in persona, che allora sedeva sulla panchina del club della Bassa Sassonia. Ma visto che rifiutò di lavorare più di tre giorni alla settimana, e che il nuovo portiere incoraggiato dal club aveva deciso di portare con sé il proprio preparatore personale, nel gennaio del 2008 fu licenziato. In seguito allenò la squadra dilettantistica con cui aveva cominciato, il tsv Lensahn, e ottenne una promozione nella terza divisione tedesca. Vincere la partita decisiva fu per Ippig «il momento più felice della mia vita». Le cose tra Volker Ippig e il calcio professionistico, non riescono a funzionare. È logico. A tal punto che attualmente ha ancora la sua scuola di portieri, ma per aiutare la sua famiglia (una compagna e due figli) lavora al porto di Amburgo, come un operaio qualsiasi. Inoltre, nel 2006 si concesse anche un breve svago artistico, recitando una piccola parte in fc Venus, una commedia che parla dei componenti di una squadra di calcio che giocano una partita contro le loro mogli. Un tempo il St Pauli è stato un laboratorio in cui il calcio ha potuto ridefinire i suoi rapporti e le sue regole. È stato uno degli ultimi tentativi utopistici di cambiare il mondo del professionismo. Non c’è riuscito. Oggi rimane un club di sinistra con una tifoseria di sinistra, che però non è mai arrivato a essere quello che sognava il suo portiere capellone degli anni ottanta. «Tutto ciò che so lo devo al calcio» dice, molto camusianamente, Volker Ippig. «Non sono mai stato l’ideologo che mi facevano sembrare, sono più un libero pensatore» aggiunge. E, con l’eterno disincanto di ogni utopista, di colui che non arriva mai a Itaca, definisce così il St Pauli di oggi: «Millerntorn è stato un laboratorio all’aria aperta per il calcio tedesco, e lo stretto rapporto venutosi a formare tra i giocatori, gli allenatori e i tifosi era già di per sé un fantastico successo. In quel momento era tutto reale. Oggi il St Pauli è qualcosa di orchestrato, artificiale. Rimane solo il mito. È tutto un mare di nebbia». Ippig ha ragione. Il St Pauli non è il club che lui e un gruppo di punk anarchici provarono a costruire. Il calcio non sarà mai quello sognato da qualche utopista, soprattutto all’inizio degli anni ottanta. Gli affari hanno travolto tutto. E nel calcio professionistico essere un guerriero, come insegna Carlos Castaneda, serve a poco. Al massimo per camminare da solo al di là della linea tracciata dal business. Ma Volker Ippig continua ad andare dritto per la sua strada.


Testo pubblicato dall'amico Gra sulla pagina Facebook  "FUSSBALL BITTE".
Grazie sempre Gra unica & autentica "Enciclopedia Umana della Bundesliga".