di Roberto Rizzetto
Nel 1965 la
redazione romana del quotidiano sportivo “ Corriere dello Sport” si trovava in
via IV Novembre, davanti all'Hotel Helvezia. Su disposizione dell'allora
direttore Antonio Ghirelli è qui che, in un'uggiosa mattina d'autunno, un giovane redattore aveva un
appuntamento con un'ex portiere quarantaquattrenne.
Da
quell'incontro sarebbe nato un racconto autobiografico in dieci puntate dal
titolo “Una vita disperata” che suscitò notevole interesse tra i lettori del
quotidiano capitolino.
Il giovane
redattore si chiamava Mario Pennacchia, ed era uno sfegatato tifoso laziale.
Successivamente pubblicò diversi libri dedicati alla società biancoceleste (
tra cui “Football Force One. La biografia ufficiale di Giorgio Chinaglia”)
prima di divenire anche responsabile della comunicazione della S.S.Lazio. Oltre
che con il “Corriere dello Sport” collaborò anche con altri quotidiani tra i
quali citiamo “Il giorno” e “La Gazzetta dello Sport”. Molti lo ricorderanno
come opinionista in trasmissioni televisive di successo come “Il processo del lunedì” di Aldo Biscardi e
“La domenica sportiva”.
Il portiere era
invece l'ex estremo difensore della nazionale italiana Giuseppe Moro detto
“Bepi”, come erano solitamente ribattezzati nel veneto coloro che si chiamavano
Giuseppe.
Per quattro
giorni redattore e portiere si appartarono in una stanzetta che la redazione
mise a loro disposizione. All'epoca non si usavano ancora le macchine da
scrivere così il redattore, per dare sollievo alla propria mano indolenzita,
doveva a volte fermare il portiere che raccontava la sua storia come un fiume
in piena. In quei quattro giorni l'orgoglio che generava enfasi narrativa si
alternò all'amarezza che accompagnava il riaffiorare di ricordi malinconici. Il
quadro finale ritrasse fedelmente miseria e nobiltà del calcio di allora.
Giuseppe Moro
detto Bepi era nato il 16.1.1921 a Carbonera, alle porte di Treviso. Qui da
bambino mosse i primi calci nel mondo del pallone … andando a giocare da solo
su un campetto del paese con un pallone comprato con le monetine messe da parte
con i primi risparmi !
Bepi non era
propriamente quello che si definisce un alunno modello. La cosa che più gli
piaceva della scuola era un suo quadernone che raffigurava sulla copertina un
tuffo del portiere cecoslovacco Frentisek Planicka.
In gioventù la
sua abilità nel saltare da un vigneto all'altro grazie ad una sorta di pertica
gli valse il soprannome di “cavalletta”.
Un giorno Bepi
Moro, dopo l'ennesima marachella, venne inseguito dal padre furibondo. Il
ragazzo, trovatosi bloccato in una stanza del secondo piano, scappò saltando
dalla finestra aperta, seguito dal padre accecato dall'ira.
Il balzo causò
un femore rotto al povero genitore, mentre Bepi ne uscì illeso.
Nel corso della
seconda guerra mondiale Giuseppe Moro venne arruolato come autista. In Sicilia
guidava i camion di assistenza ai carri armati. Durante i frequenti attacchi
aerei era solito gettarsi dalla cabina del camion, facendo balzi di diversi
metri per mettersi al riparo.
Terminato il
conflitto mondiale ( dopo una rocambolesca fuga saltando da un treno in corsa )
tornò a vestire la maglia biancoceleste del Treviso, squadra nelle giovanili
della quale aveva già militato in precedenza.
L'esordio nella
massima serie avvenne con la maglia viola il 14.9.1947, quando la sua nuova
squadra, la Fiorentina appunto, sconfisse 1-0 la Roma grazie anche alle sue
prodezze. Uno splendido girone di andata gli permise, nel dicembre di quello
stesso anno, di entrare nel giro della nazionale azzurra .
Tuttavia, a
causa dell'andamento altalenante tenuto nel girone di ritorno oltre al pessimo
rapporto che si era instaurato con il ds viola Ugolini, fece si che il portiere,
a fine stagione, venne trasferito a Bari. Qui fu il protagonista assoluto della
salvezza che la squadra pugliese ottenne nella stagione successiva. Moro neutralizzò
tre rigori consecutivi nelle prime tre giornate ed entrò stabilmente nel giro
della nazionale.
L'anno
successivo l'estremo difensore trevigiano venne ingaggiato dal Torino per il
dopo Superga. Moro iniziò alla grande l'annata parando altri due rigori nelle
prime due giornate di campionato. Tuttavia fu una stagione di luci ed ombre ,
che non gli impedì tuttavia di partecipare al mondiale brasiliano del 1950.
Disputò la seconda partita di quel mondiale ( che gli azzurri persero 0-2 con
il Paraguay ) ma si trattava di un incontro ininfluente in quanto gli azzurri
erano già eliminati a causa della precedente sconfitta rimediata contro la
Svezia.
Al ritorno dal
Brasile finì alla Lucchese, dove contribuì alla permanenza nella massima serie
della compagine rossonera.
Nelle due
stagioni successive vestì la maglia blucerchiata della Sampdoria, disputando
tutte le 72 gare di campionato. Fu soprattutto la seconda stagione genovese,
disputata a livelli altissimi, che permise al portiere trentaduenne di ottenere
un biennale con la Roma , per un ingaggio complessivo di nove milioni ( mentre
il costo del suo cartellino fu di 40 milioni di lire ).
Furono proprio
gli anni capitolini a rovinare la vita al portiere veneto.
La gestione
fallimentare di un bar a Porta Pia oltre all'uso poco accorto dei suoi guadagni
lo ridussero sul lastrico. Inoltre le incomprensibili “papere” che si
alternavano ad interventi prodigiosi alimentarono il sospetto che Moro avesse
“addomesticato” alcuni incontri. Certamente queste voci non giovarono al
portiere che, lasciata la Roma, firmò un biennale col Verona. Ma dopo la prima
stagione, in cui giocò davvero poco, la società scaligera gli diede una
buonuscita del valore di un milione pur di non confermarlo per l'annata successiva.
Terminata la
carriera professionistica si ritrovò così con pochi soldi e senza lavoro . Per
mantenere la moglie ed i suoi quattro figli dovette vendere anche la sua casa
di Treviso. A questo punto, pur di sbarcare il lunario si improvvisò anche attaccante
ed allenatore di una squadra di terza divisione del trevigiano e venditore di
caramelle nei paesini di provincia. Poi , grazie all'aiuto di alcuni amici, si
trasferì dapprima a Porto Sant'Elpidio, nella provincia di Fermo, allenando la
squadra del paese in quarta divisione. Successivamente Moro partirà alla volta
della Tunisia dove, per un solo anno, allenò la squadra di Ebba Ksour, un
piccolo paese di soltanto 5000 abitanti. E fu proprio al ritorno da questo
paese tunisino che Moro ebbe l'incontro con il giornalista Mario Pennacchia di
cui abbiamo parlato prima. Sussessivamente Giuseppe Moro tornò in Africa per
allenare la prima squadra e quattro formazioni giovanili della compagine
tunisina dell'Olympique Beja .
Tornò
definitivamente in Italia nel 1965, lavorando come rappresentante di dolciumi
prima ed in uno stabilimento che produceva scarpe dopo.
Morì nel 1974 a
soli 53 anni nella sua casa di Porto Sant'Elpidio a causa di un male incurabile.
Dino Zoff, alla notizia del decesso del “collega”, mandò a Treviso la sua
maglia della Nazionale, in segno di stima e riconoscenza.
Giuseppe Moro
in carriera disputò 271 partite in serie A e 67 nella serie cadetta. In Nazionale invece collezionò 9
presenze, tra cui quella contro l'Inghilterra il 30.11.49, sul campo del
Tottenham di White Hart Lane. In quel frangente , nonostante la sconfitta , compì
delle prodezze formidabili.
Proprio a
“causa” delle sole 9 presenze in maglia azzurra , durante un Roma-Juventus,
Moro venne costretto a lasciare l'Olimpico in quanto privo di biglietto.
L'accesso gratuito era consentito solo agli ex giocatori che avevano indossato
in almeno 10 occasioni la casacca azzurra …
Con ogni
probabilità rimarrà imbattuto il suo record di 46 rigori neutralizzati ( considerando
sia quelli parati che quelli sbagliati dagli avversari ) su 63 subiti . Quasi il 75% …
("Bepi" Moro in Italia - Inghilterra 18/5/1952)
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